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"Farewell, Master Burglar. Go back to your books, your fireplace. Plant your trees, watch them grow. If more of us valued home above gold, it would be a merrier world."
"What have we done?" si chiedeva Bilbo Baggins, mentre guardava impietrito il Drago dirigersi verso la cittadina di Pontelagolungo per portare morte e distruzione fra i suoi abitanti, nel secondo capitolo della Trilogia de Lo Hobbit The Desolation of Smaug: riparte esattamente da qui, come se non ci fosse stata alcuna interruzione, The Battle of Five Armies(in italiano, lo straniante "La Battaglia delle Cinque Armate), atto finale e definitivo non solo delle avventure giovanili dello Zio di Frodo ma anche dell'ormai vasta esalogia che Peter Jackson ha costruito intorno all'epica Tolkieniana e alla mitica Terra di Mezzo Neozelandese.
In una sequenza abbacinante che dà il peso dovuto all'interessante personaggio di Bard, La lingua lunga del Drago viene messa a tacere in fretta ( così come quella dell'infame Governatore di Stephen Fry): dinanzi alle poche, pochissime pagine di testo rimaste, Jackson e le fedeli sceneggiatrici Fran Walsh e Philippa Boyens proseguono il loro lavoro di sviluppo e ampliamento della base cartacea, dando vita a un vero e proprio film di Guerra che riunisce i vari schieramenti sotto la Montagna per ragioni ben diverse da quelle che li spingeranno a far fronte comune contro il vigile Occhio di Sauron cinquant'anni dopo; patria perduta dei nani e ora riconquistata senza troppa soddisfazione, una volta liberata dal giogo del Drago Erebor diventa la luce che attira le falene verso una ricchezza senza fine, ma anche il simbolo del veleno che consuma il cuore di ogni razza senza che sia necessario l'intervento di alcuna Magia Oscura.
In The Lord of The Rings uomini e stregoni si lasciano piegare con facilità dal miraggio del potere assoluto a cui si accompagna la conquista dell'Unico Anello, ma è il tossico bisbiglio di Sauron a insinuarsi nelle mente di Bilbo e infine di Frodo, consumandole lentamente fino a trascinarle verso il baratro: in The Battle of The Five Armies, il maleficio che divora Thorin Scudodiquercia e fa schierare gli eserciti di Elfi, Uomini e Nani è piuttosto la pura e semplice malattia dell'oro, avarizia naturale di un mondo egoista ancora ben lontano dalla condivisione e dal rispetto reciproco, ritrovatosi a combattere sotto la stessa bandiera più per una fortuita circostanza che con autentica e sentita partecipazione: il rapido incedere della Guerra mette da parte le vili questioni di denaro iniziali e pone l'elemento bellico, messo in scena con meticolosa imponenza dallo stratega Peter Jackson, al centro della pellicola, concedendo a ciascun popolo l'opportunità di emergere visivamente e militarmente ( la falange dei Nani dei Colli Ferrosi è a dir poco spettacolare).
Lontani dal furore che si consuma in campo aperto, i momenti più emozionanti restano però ben saldi nelle mani di alcuni attori e dei duelli che li vedono protagonisti nella migliore tradizione cavalleresca: oltre al già citato Bard(uno spavaldo e premuroso Luke Evans) e al suo ultimo scambio con Smaug, c'è lo scontro all'ultimo sangue di Thorin col famigerato Azog il profanatore, ma anche i tesissimi istanti che vedono protagonisti i giovani Fili e Kili, ultimi figli della stirpe di Durin; interessante inoltre che si sia scelto di insistere sul personaggio di Tauriel non tanto nella costruzione di un triangolo amoroso eccessivamente invasivo( senza dubbio presente ma gestito con riservato contengo da parte di Legolas) quanto nella redenzione dell' altezzoso arrogante Thranduil(nello sguardo di ghiaccio di Lee Pace), il re degli Elfi Silvani sempre sicuro di sé e per la prima volta costretto a fare un passo indietro sperimentando la comprensione e il perdono.
Tormentato, maledetto e infine pronto a riscattare il suo onore, Richard Armitage è perfetto nel dare vita alla difficile e ambigua parabola di Thorin così come Aidan Turner e Dean O'Gorman nei panni degli genuini e incoscienti nipoti Fili e Kili, ma proprio a ragione del marcato individualismo voluto per quest'ultimo capitolo qui è difficile apprezzare davvero gli altri membri della Compagnia, rimasti per lo più dietro le quinte; eliminate i siparietti che avevano caratterizzato i Nani più buffi del gruppo all'inizio di Un Viaggio Inaspettato, il compito di alleggerire i toni è andato invece all'Alfrid di Ryan Gage, viscido quasi quanto Grima Vermilinguo ma molto più umano nei suoi umilianti tentativi di portare a casa la pelle.
E il nostro Mastro Scassinatore? La divisione dell'opera in tre massicci lungometraggi ha purtroppo diluito pesantemente la sua presenza, soprattutto in questo capitolo: ciononostante, Martin Freeman è riuscito ancora una volta a rendere Bilbo Baggins il piccolo, grande personaggio che è sempre stato, grazie a un'interpretazione che coniuga alla perfezione un coraggio e una furbizia non comuni fra le creature della Terra di Mezzo a quelli che sono i caratteri più irresistibili degli Hobbit della Contea; tanta dolce goffaggine, attitudine per una vita semplice e una casa confortevole e sicura, ma anche la capacità di non smettere mai di meravigliarsi per le bellezze di un mondo fantastico che al di là di tutti i suoi innumerevoli pericoli, fra coloratissime farfalle e gigantesche aquile salvatrici, rivela continue bellezze davanti ai nostri occhi.
Dopo i lunghi sospiri, le lacrime e i lievi sorrisi arriva il momento dell'Addio, quello vero, con un congedo apparentemente lieto ma che non può non lasciarci dentro una malinconia profonda e amarissima: sappiamo quale triste destino attenda alcuni dei Nani più simpatici della Compagnia, pensiamo al modo misero in cui la preziosa Mithril si perderà nel Regno di Mordor, proviamo tenerezza per il modo in cui Bilbo rimprovera a Thorin la sua debolezza, per poi ritrovarlo nella malconcia ma ancora deliziosa Casa Baggins ad agitare nervosamente la mano sulla tasca, schiavo della tentazione di prendere e accarezzare quel misterioso gingillo trovato nelle caverne dei goblin che ha la capacità di renderlo invisibile; vorremmo avvertire Gandalf che anche la persona più piccola può cambiare il corso degli eventi, vorremmo avvertire tutti loro del mortale pericolo a cui stanno andando incontro, ma se lo facessimo Frodo non potrebbe ereditare l'anello e allora non ci sarebbe più nessuna storia da raccontare.
Alla fine, perdonate le strizzate d'occhi troppo marcate ai fan e scene palesemente riempitive e non necessarie, Peter Jackson chiude il cerchio su una trilogia che ha saputo trovare un cuore tutto suo nel grande poema della Terra di Mezzo, salutando in modo commosso e sentito un universo che negli ultimi anni ha accresciuto le sue già straordinarie premesse visive grazie all'uso della vivida Tecnologia HFR, inattesa rivelazione in grado di portarci fin dentro i lunghi campi Neozelandesi e di farci sfiorare dai colpi di Coda del Drago con effetti strabilianti; la prima, inimitabile trasposizione della Trilogia dell'Anello conserva grazia e smalto immutati e trova così un degno passato cinematografico, da condividere con gli spettatori digiuni dai libri e con coloro che, per quanto avidi lettori dell'opera letteraria, hanno saputo farsi conquistare dalla visione di Jackson.
A dispetto delle obiezioni dei puristi e dei più accaniti oppositori delle modifiche alla pagina scritta, il viaggio compiuto da neofiti e veterani è stato in effetti il medesimo: siamo partiti per un'avventura, ignari di cosa di ci avrebbe portato, abbiamo percorso differenti sentieri e siamo approdati esattamente nello stesso luogo, le bianche scogliere dove ogni cosa finisce e non tutte le lacrime sono un male, per vivere il Sogno di Tolkien e renderlo nostro, per sempre.
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