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"I would draw some of the great tales in fullness, and leave many only placed in the scheme, and sketched. The cycles should be linked to a majestic whole, and yet leave scope for other minds and hands, wielding paint and music and drama. "(J.R.R. Tolkien, Letter no. 131)
Nell'era degli Effetti Speciali impossibili e di una terza dimensione sempre più luminosa e immersiva, riuscire a compiacere gli occhi degli spettatori giunti in sala con una visione che valga un investimento di tempo e denaro non indifferente è facile, ma varcare il punto di saturazione lo è altrettanto: cosa rimane allora della meraviglia, di quel brivido che ti scorre lungo la schiena e che ti fa saltare dalla poltrona dov'eri comodamente seduto facendoti sentire l'essere più piccolo del mondo, dei fotogrammi che scorrono sullo schermo risucchiandoti al di là della barriera senza che tu ne accorga per poi riportarti indietro, alla fine del film, frastornato e incredulo ma con le immagini di un nuovo, magnifico panorama di immagini scolpito nel cuore e nella mente? Se c'è in questo momento un blockbuster in grado di preservare, proteggere e difendere tali preziose e uniche sensazioni, quello è il secondo capitolo della Saga de Lo Hobbit firmato da Peter Jackson.
Dopo An Unexpected Journey, episodio preparatorio che gettava le basi per quello che sarebbe diventato il climax della nuova Trilogia basata sul testo di J.R.R. Tolkien , si entra finalmente nel vivo dell'azione con La Desolazione di Smaug (The Desolation of Smaug), che pur dovendo fare i conti con l'ingrato ruolo che vede le pellicole di transizione piegarsi alle logiche di uno spietato sistema seriale scandisce la Grande impresa della Compagnia di Thorin Scudodiquercia con ritmo crescente, correndo a briglie sciolte negli scenari fantastici offerti dalla Terra di Mezzo fino a traghettarci verso l'ultimo atto col fiato sospeso e le aspettative alle stelle.
In fase di partenza, la scelta di dividere il libello di Tolkien non in due ma in ben tre pellicole di lunga durata ci aveva destato parecchie perplessità, ma messa a servizio del racconto l'infinita quantità di tempo a disposizione si rivela un'alleata preziosa, tessendo un fil rouge con la Trilogia dell'Anello e ricomponendo i pezzi del puzzle in un'unica, imponente esalogia: approfondire ciò che nel testo era a malapena accennato, uniformare preservando il canovaccio di partenza e svelare la tenebra nascosta fra le pagine e stemperata dal tono fiabesco prediletto dall'Autore era la missione impossibile di Peter Jackson, Fran Walsh e Philippa Boyens, al lavoro su una sceneggiatura abile ad attingere dall'intera Mitologia Tolkieniana e in parte a sbizzarrirsi con invenzioni in armonia coi canoni della stessa.
L'operazione, che farà ovviamente storcere il naso ai puristi dell'opera letteraria, si rivela convincente e filologicamente coerente nei riguardi di una cosmogonia che potendosi finalmente permettere di abbattere le barriere del tempo ( Lo Hobbit era stato scritto molto tempo prima che Il Signore degli Anelli prendesse definitiva forma e sostanza) non può e non deve più essere organizzata per compartimenti stagni: il Cielo si fa sempre più oscuro mentre l'Ombra del Negromante si allunga dalla fortezza di Dol Guldur e i sussurri malefici dell'Anello si fanno strada nella mente di Bilbo, il desiderio di Thorin di riconquistare la Patria tanto amata si mischia sottilmente con l'avidità e la brama di ricchezza che avevano gettato il seme della follia nella Stirpe di Durin e gli Elfi Silvani, poco simpatici e ospitali già sulla carta, perdono grazia per ritrovare tutto l'egoismo e la presunzione di una razza che vive ben al sicuro entro i propri confini e non sembra non avere alcun interesse nelle sofferenze del mondo esterno.
Lungo un percorso in cui nessun rimando agli eventi che verranno, che si tratti di simpatici Easter Egg, di un indagine sulle Origini del Male o di semplici ma crudeli riferimenti iconografico( chi ricorda bene l'Ingresso nella Sala Grande a Moria ne La Compagnia dell'Anello coglierà immediatamente il riferimento) il viaggio prosegue conducendo protagonisti e spettatori su sentieri inediti e tutt'altro che sicuri, in un video gioco a più livelli che spazia dalle virate horror dell'infestazione di ragni di Bosco Atro (letali per chi soffre di aracnofobia) all'opportunità di una rocambolesca fuga acquatica degna del miglior cinema d'avventura; in un microcosmo elfico più stiracchiato del previsto che l'ha accettata fra le sue file solo per bilanciare l'assenza di presenza femminili e creare un passato per uno storico personaggio come Legolas, la Tauriel di Evangeline Lilly corre parecchi rischi facendo un ingresso dal tono un po' troppo spigliato e contemporaneo, ma si rimette presto in carreggiata grazie a un coraggio e una dolcezza di ispirazione chiaramente "Arweniana" che ben si intonano ad una love story interrazziale non così anomala nel panorama tolkieniano.
Per il Professore, immaginare di proseguire la storia della Terra di Mezzo senza elfi era inconcepibile, ma come già accaduto ne Le Due Torri e ne Il Ritorno del Re a rendere appetibile e straordinario l'Universo Fantastico che tanto amiamo sono anche e soprattutto gli Uomini che lo abitano, decisi a non essere lasciati indietro e a rivendicare con caparbietà la loro appartenenza ad un mondo dalle forze indomabili e spesso incomprensibili: con ricchezza di dettagli degna della meticolosità di un pittore fiammingo, la deliziosa cittadina di Pontelagolungo si mostra al pubblico accompagnandolo in ogni strada, vicolo o abitazione, facendolo familiarizzare con la quotidianità della vita semplice e umile dei suoi abitanti così come con l'ingordigia del suo governatore( interpretato dalla leggenda Stephen Fry), figuro dickensiano viscido e lurido tanto quanto il suo fidato consigliere.
Il motivo per cui ci siamo spinti tanto lontano era però uno e uno soltanto, quel Drago Smaug annunciato in pompa magna sin dal titolo come foriero di morte e distruzione che non si limita certo a soddisfare le aspettative di chi attendeva con ansia il suo debutto sulla scena: nelle movenze e nelle espressioni, umanissime, di Benedict Cumberbatch, la possente creatura si fa strada attraverso fiumi dorati con sicurezza e arroganza, pomposa primadonna che catalizza su di sé tutti i riflettori rendendo il duello d'astuzie con Lo Hobbit, leggendario per generazioni di lettori, un'esperienza visivamente accecante; alle prese col doppiaggio ( impossibile) della voce di Cumberbatch Luca Ward assolve al suo compito in maniera egregia, ma i fan italiani dell'attore inglese avranno comunque l'opportunità di sentire tremare la sala al suono della sua voce grazie al Negromante(seconda sua interpretazione all'interno del film dopo quella di Smaug), velenosa entità resa ancor più squisitamente terrorizzante dalle sataniche sfumature della lingua Nera.
In costante equilibrio fra humour irresistibile, disarmante naturalezza e latente oscurità, i colori della performance di Martin Freeman si fanno sempre più intensi dimostrando ancora una volta ( come se ce ne fosse bisogno) quanto sia stata oculata la scelta di Jackson: lodi anche per il sempre più combattuto Thorin di Richard Armitage e per la New Entry Luke Evans nel ruolo di Bard, Aragorn ante litteram e protettore della gente comune che si rivela un elemento di rottura piuttosto curioso e affascinante, nel panorama delle forme di governo dalla monarchica sacralità finora incontrate nei Regni degli Uomini nella Terra di Mezzo.
"The generally different tone and style of The Hobbit is due, in point of genesis, to it being taken by me as a matter from the great cycle susceptible of treatment as a ‘fairy-story’, for children. Some of the details of tone and treatment are, I now think, even on that basis, mistaken. But I should not wish to change much. For in effect this is a study of simple ordinary man, neither artistic nor noble and heroic (but not without the undeveloped seeds of these things) against a high setting - and in fact (as a critic has perceived) the tone and style change with the Hobbit’s development, passing from fairy-tale to the noble and high and relapsing with the return." (J.R.R. Tolkien, Letter no. 131)
Mentre i titoli di coda si aprono sulla malinconica ballata di Ed Sheeran ( forse la nota più felice della colonna sonora, a questo giro un po' stiracchiata, firmata da Howard Shore) non possiamo non domandarci se Tolkien avrebbe apprezzato e in fine compreso il valore di quest' adattamento, magari con la consapevolezza che tutte le belle favole sono corrotte da venature di tragicità e spietatezza e che ci sono storie dal valore talmente universale da sfuggire non viste al controllo del loro stesso autore, pronte a vagare per il mondo in cerca di una nuova e più confortevole dimora: in fondo, La Terra di Mezzo appartiene ormai a tutti noi ed è un nostro diritto voler restare il più a lungo possibile.
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