Pare che i francesi ci abbiano preso gusto con la paura.
Già da qualche anno, sulla falsariga di quello spagnolo, il cinema francese fa registrare un'attenzione crescente rispetto al genere horror, con risultati che sul piano della qualità non hanno niente da invidiare a quelli del cinema americano. Anzi, trovo la nascita di questo nuovo corso, battezzato forse per ragioni di comodità giornalistica “Nouvelle Trouille”, assai più intrigante di certi filoni made in U.S.A.
Nonostante questo, “The Horde”, del duo Yannick Dahan e Benjamin Rocher, non mi ha convinto molto. Perché se da un lato si presenta come il primo film francese sugli zombies, dall'altro non produce nulla di nuovo rispetto a quanto già visto in precedenza. Insomma, avrei voluto assistere a una rilettura del genere zombesco piuttosto che a un'opera così scarna e derivativa.
La trama del film è semplice.
Quattro poliziotti decidono di vendicare la morte di un collega avvenuta per mano di una banda di criminali rintanatasi presso un palazzo alla periferia di Parigi. Armati di odio e quant'altro assaltano il rifugio. Qualcosa però va storto: l'intero edificio è assediato da un'orda di zombi che non conoscono ragione. Poliziotti e criminali decidono allora di coalizzarsi per tentare la fuga senza lasciarci le penne.
“The Horde” inizia col ritrovamento di un cadavere in una discarica. Lo sguardo di chi non può perdonare tale oltraggio e un funerale in cui il dramma cova la sua vendetta. La regia di Dahan e Rocher sceglie così un approccio noir, quasi alla maniera di un romanzo di Jean-Patrick Manchette, per poi dare vita ad un'escalation che nel giro di venti minuti passa dall'hard-boiled all'horror. Le domande allora fioccano inquadratura dopo inquadratura: come mai i personaggi si trasformano in zombies? Dov'è cominciato tutto? A causa di chi o di cosa?
Sulla terrazza del palazzo in cui il film è totalmente ambientato, la visione di una Parigi in fiamme aumenta tale spaesamento. Non è più la periferia a minacciare il centro ma il contrario. Sono i mostri provenienti dalla città perbene ad avanzare famelici verso le banlieues. Capovolgimento di un luogo comune, dunque, che però – a mio avviso – non produce niente aldilà del dato di fatto. Le interessanti premesse di “The Horde”, infatti, non essendo supportate da una storia capace di svilupparne le potenzialità, finiscono per diventare solo un banale pretesto atto a giustificare lo splatter che verrà. In questo senso, l'omaggio a Romero, più volte citato a proposito del film, finisce per essere gratuito. E non perché “The Horde” avrebbe dovuto per forza farsi carico di una valenza politica o sociologica, per carità (l'horror è innanzitutto intrattenimento basato sulla paura), ma solo per il principio secondo cui se inserisci determinati presupposti in sceneggiatura sarebbe poi corretto svilupparli un minimo.
Trascorsa la prima mezzora, il film smette così di intrigare e lascia spazio all'azione. Scontri e agguati a tutto gore prendono il sopravvento per la gioia degli appassionati più incalliti e per la delusione di chi avrebbe voluto una narrazione meno prevedibile. La regia procede sempre senza inciampare, va detto, funzionale alla spettacolarità delle sequenze e forte di una fotografia cupa e intonata alla malsana atmosfera degli interni, tuttavia, è sempre il peso di una sceneggiatura priva di originalità a minare l'equilibrio del film. Ogni piano dell'edificio è un chiaro girone infernale fatto di corridoi, stanze e anfratti gravidi di pericolo ma, al netto delle possibili illustri citazioni non solo cinematografiche (come non pensare a “Il condominio” di Ballard), non si ravvisa niente di eclatante. Non si comprende nemmeno il senso di certi atti eroici. Mi riferisco sia alla scena in cui uno dei poliziotti decide di affrontare da solo, a mani nude, l'orda di non-morti che avanza e a quella dove a crepare è l'anziano panciuto fascistoide che, solo per il piacere di ficcare una granata in bocca a uno zombi, si lascia saltare in aria.
Insomma, si ribadisce il concetto secondo cui in “The Horde” sono i pretesti più assurdi a comandare. Come se si volesse, a tutti i costi, spingere la storia verso l'unico finale possibile. Un finale cinico sì, ma poco coerente. Perché se dopo una notte del genere, fatta di sangue e paura, durante la quale hanno perso la vita amici e alleati, decidi di far fuori l'unica figura in grado di sparare e coprirti le spalle dalla minaccia che fuori incombe, allora deduco che tu sia – per usare un eufemismo – uno sconsiderato. Al diavolo la missione, al diavolo la vendetta, al diavolo la parola data: la posta in gioco è cambiata! Il racconto, così com'è, impone altre scelte e i personaggi avrebbero dovuto farsene carico, anziché appiattirsi su uno schema rigido, già deciso a tavolino, schiavo di un senso estetico fine a sé.