Regista eclettico e versatile, stilisticamente elegante e raffinato al limite del manierismo, Im Sang-soo torna dietro la macchina da presa a distanza di quattro anni dal pregevole The Old Garden per riportare sul grande schermo The Housemaid del maestro Kim Ki-young, autentica pietra miliare della cinematografia coreana. Dopo la presentazione in concorso alla scorsa edizione del Festival di Cannes e il Premio Speciale della Giuria al Courmayeur Noir in Festival, l’ultima fatica del regista sudcoreano approda nelle sale italiane grazie alla Fandango, in una stagione che presenta un cartellone particolarmente ricco per quanto riguarda i titoli asiatici distribuiti nel mercato nostrano.
Non si tratta di un vero e proprio remake, piuttosto di un adattamento contemporaneo dell’omonima pellicola del 1960, della quale Im conserva quasi intatta la base narrativa, ma ne stravolge il punto di vista del racconto plasmando a proprio piacimento personaggi, dinamiche interne e atmosfere. Sinossi alla mano ci si rende subito conto del cambio drastico di prospettiva. Rispetto al film di Kim, l’opera del collega classe 1962 passa il testimone della narrazione dalla figura maschile a quella femminile, trasformando di fatto un personaggio secondario nel protagonista della vicenda. Non c’è più l’uomo spietato sedotto da una sorta di mantide intenzionata ad intrufolarsi nel menage di una ricca famiglia coreana, ma una domestica semplice e remissiva, fragile e infantile quanto basta per essere sedotta e abbandonata da un uomo senza scrupoli. Si passa da un melodramma ansiogeno ad un dramma sordido ancora più malato, sessualmente carico e cerebralmente martellante e ossessivo che dà vita ad una sorta di incrocio tra Miss Julie di August Strindberg e Il diario di una cameriera (1964) di Luis Buñuel dall’omonimo romanzo di Octave Mirbeau del 1900.
È un film sull’umiliazione e sul gelo dei sentimenti (espresso metaforicamente dalla neve che cade copiosa dalla prima all’ultima inquadratura), nel quale trova posto una tematica chiave del cinema coreano come quella della vendetta, ma anche sull’assenza della morale, che racconta di una sorta di “aliena” che si trova a dover fare i conti con un microcosmo privato, figlio malsano di una società borghese strutturata. E in tal senso, ci troviamo al cospetto di un pesante ed aspro atto d’accusa nei confronti di un “mondo” asettico come quello dell’alta borghesia, convinta che con i soldi si possa comprare tutto, compreso il silenzio e il rispetto per se stessi. La sostanziale differenza con l’originale, infatti, ruota intorno al senso di colpa, stato d’animo che nel film di Im Sang-soo è praticamente assente: il padrone di casa, egocentrico ed edonista, che negli atteggiamenti e nelle abitudini calca il modello occidentale (sorseggia buon vino, fuma sigari e suona il piano), non sa cosa significhi, gira la testa dall’altra parte. È totalmente irresponsabile e violento, caratteristiche di molti dei personaggi che hanno animato in passato le pellicole del cineasta sudcoreano.
Il risultato è altrettanto efficace e coinvolgente, ma soprattutto non ha la presunzione di voler ricalcare drammaturgicamente e visivamente i fasti della matrice originale, piuttosto la rilegge attualizzandola in una chiave diversa sul versante delle tematiche e dello stile del racconto. In sintesi, il The Housemaid di Im Sang-soo è un’interpretazione personale di un classico, nella quale il regista ha voluto, partendo da una base solida, inserire temi e stilemi caratteristici del suo modo di fare e concepire il cinema. Il cambio del punto di vista nel racconto ha permesso al regista, che firma anche l’ottimo script, di mettere in quadro un altro elemento chiave della sua filmografia, vale a dire l’universo femminile. Con la pellicola del 2010, Im ci porta in un focolaio domestico popolato quasi esclusivamente da donne, presenze centrali delle sue storie, vedi ad esempio Girls’ Night Out (1998), Tears (2000) e in primis La moglie dell’Avvocato (2003). Da qui l’elemento della sessualità che il regista sprigiona in tutta la sua carica erotica, selvaggia e liberatoria. Sono donne completamente disinibite, capaci di parlare e fare sesso con libertà, freschezza e senza imbarazzo. La protagonista del discusso e controverso film del 2003 ne è la dimostrazione più chiara ed evidente. Quella di The Housemaid non è da meno, anche se qui le scene di sesso sono molto meno esplicite e rese attraverso un uso dei dettagli e del fuori campo.
Torbida e allo stesso tempo arida, ammirevole per l’avaro rigore della sua drammaturgia, la scrittura alla base della pellicola del 2010 si tramuta in immagini morbose ed elegantemente sofisticate. La macchina da presa di Im scivola chirurgicamente negli spazi, disegnando linee perfette e inquadrature geometriche, riflesso di una società che cerca insistentemente di raggiungere la perfezione.
Francesco Del Grosso