Ogni anno ne vengono estratti a sorte ventiquattro, due “esemplari” per ogni distretto, destinati loro malgrado a diventare star per una manciata di giorni e quindi “tributi” sacrificali nel corso del reality che li metterà l’uno contro l’altro costringendoli a scannarsi fino a decretare un vincitore, l’unico sopravvissuto. A questo punto alzi la mano chi ancora non ha individuato i più che espliciti riferimenti cinematografici e letterari presenti nel plot: si va dal tamarro e divertente “L’implacabile” (a suo volta ispirato a “L’uomo in fuga” di Stephen King) fino a “The Truman Show”, passando per la cruenta serie giapponese “Battle Royale” e, naturalmente, per i capisaldi ovvero Ray Bradbury e George Orwell. Opera derivativa, tra fantascienza e apologo sociale, “Hunger Games” lo è quindi, ed innegabilmente, fino al midollo ma in un senso del tutto positivo: del resto quante storie per ragazzi riescono ad innescare suggestioni intelligenti come la critica nei confronti del totalitarismo più deteriore sorvolando al tempo stesso sulla violenza e negoziando il cinismo dell’assunto iniziale con un romanticismo (finalmente) credibile? La maturità dell’approccio rende tollerabile la disinvoltura con cui si opera il “saccheggio” e ci ricorda, tutto sommato, che il mito (la Collins dichiara di essersi ispirata per la sua saga a quello di Teseo) vale più quando viene declinato in chiave “intelligente” che piegato per scopi inautentici o traditori (vedi alla voce La furia dei Titani). Sgomberato dunque il campo da sterili polemiche di (presunta) lesa maestà nei confronti dei “grandi” veniamo al film che, anche stilisticamente, pare segnare un passo importante nell’evoluzione del prodotto di intrattenimento per tutti.
Macchina a mano, una fotografia capace di passare da toni plumbei o accecanti (come nella suggestiva sequenza della “mietitura”, il rituale sorteggio dei tributi) a tripudi “carichi” e visionari (come la parata delle bighe, quasi una versione ultra-pop di Ben Hur) e un regista, Gary Ross (suo quell’indimenticato gioiellino di Pleasantville) che sa alternare con sapienza momenti più distesi e intimisti con sequenze più nervose e concitate, in controtendenza rispetto alle modaiole riprese action da otturatore veloce. E sullo sfondo cascine dimesse e paesaggi rurali “sporchi” che paiono usciti da un romanzo di Steinbeck con una protagonista (la bravissima Jennifer Lawrence, già giovane Mystica in “X-Men: L’inizio” e interprete dolente nel dramma “Un gelido inverno”) tanto bella e “terrena” ma soprattutto priva di quel compiacimento divistico che contagia altre sue (meno dotate) colleghe. Sorella maggiore capace di immolarsi per amore della minore Primrose, la Lawrence, in questa incarnazione, sembra quasi una novella Diana con arco e faretra ma il suo sguardo, più che una determinazione assassina, sembra riflettere tormenti autentici e una disperata voglia di (soprav)vivere e, soprattutto, di proteggere: Katniss Everdeen è sorella e madre nella palpabile assenza di figure genitoriali di rilievo, ulteriore tratto distintivo di questa distopica visione in cui sembra dominare l’assuefazione adulta. Attraversa fieramente l’intera pellicola oscurando gli ottimi comprimari (e parliamo di Donald Sutherland, Woody Harrelson e Stanley Tucci, tutti perfetti nel loro essere sopra le righe) divenendo l’occhio e il filtro dell’intera vicenda e rifiutando, anche quando combatte, quell’idea bellicosa coccolata invece ai piani alti dell’insensato sistema. Basterebbe solo la sua espressione, limpida e focosa al tempo stesso, per assolvere “Hunger Games” da qualsiasi sospetto di incitamento alla violenza.
Non soltanto infatti la protagonista distoglie costantemente gli occhi dalle uccisioni più cruente (facendo sì che il suo sguardo si assimili al nostro), ma lo stesso omicidio imposto dal sistema viene rifiutato fin verso la fine, mentre la morte viene ritualizzata nel solo modo umano ancora possibile, quello dell’ultimo saluto. Se l’umanità e il profondo senso morale della protagonista sono fuori discussione, non altrettanto limpida appare la visione degli altri partecipanti al gioco mortale, a cominciare da quel Peeta suo compagno di distretto sui cui reali sentimenti aleggia più di un sospetto di ambiguità. Dopotutto che la stessa storia d’amore possa in realtà tradursi in astuto espediente per “farsi gioco” del gioco, l’arma inattesa che consente di dribblare gli imprevedibili e repentini cambi di regole che il reality impone, è dubbio lasciato abilmente all’interpretazione dello spettatore. Del resto che cosa è più vero, la realtà vissuta di fronte alle telecamere o quella realtà che la telecamera stessa crea? Il bene vince (per adesso) solo perché diventa elemento ricattatorio del sistema e solo nella misura in cui questo è disposto ad accoglierlo (almeno, s’intende, fino al prossimo cambio di regole). Chiusa ideale di un film che incorpora il “truman show” decretando la vittoria della sua sprezzante amoralità in nome dei sentimenti o capitolo uno che prelude ad una rivolta sociale ancora da venire? Nell’attesa che i semi di riflessioni non banali vengano intelligentemente raccolti da un atteso capitolo due, non resta che godersi tutta la gustosa ambiguità di questi ennesimi ed “affamati” wargames…