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"They'll either want to kill you, kiss you, or be you."
Chiudi il franchise, sdoppia il franchise: il mantra partito dai film di Harry Potter che ha contagiato a catena tutte le saghe per ragazzi e non solo ha colpito come previsto anche l'ultimo libro della serie di Hunger Games, diviso in due capitoli destinati l'uno a distanza di un anno dall'altro, con buona pace dell'attesa degli spettatori non lettori e degli stessi fan più accaniti dei romanzi: una serializzazione su larga scala che ormai domina il cinema contemporaneo e che abbiamo imparato ad accettare, mostrando un sorriso amaro addolcito solo dalla prospettiva di poter ritrovare in sala storie e personaggi in grado di accompagnarci a lungo e dai quali abbiamo grosse difficoltà a separarci, ma che mette a dura prova il valore intrinseco di una pellicola nata per contenere solo la prima metà del racconto che si appresta a portare sul grande schermo.
Non facendo il minimo sforzo per guarire la deriva della sua naturale incompiutezza, "The Mockingjay - Part 1"(Il Canto della Rivolta - Parte I) cade in pieno nella trappola consegnandoci uno spettacolo che nel proiettarsi con slancio sicuro verso il suo atteso prosieguo non riesce a caricarsi della giusta verve narrativa, ma il pugno allo stomaco procuratoci dalla distopia di Suzanne Collins resta forte abbastanza da sostenere il film e a tenere alta l'attenzione del suo pubblico senza invidiare poco o nulla alle stoccate più dolorose dei precedenti capitoli.
Smessi i colorati panni imposti dalla moda di Capitol City, The Mockinjay - Part 1 è costretto a rinunciare alla suggestiva allucinazione estetica ricercata dalla Tirannia per coltivare il seme della rivoluzione nell'oscurità di un avamposto sotterraneo: anche se gli appariscenti abiti di Cinna e le sfilate dei tributi sono ormai un ricordo da commemorare, la rinuncia allo smalto visivo è ben ripagata dalla cappa angosciante e più dichiaratamente distopica che chiama le reclute della Nuova Rivoluzione alla Guerra in spoglie uniformi nere, esasperando la loro permanenza e facendogli perdere il sonno nel tentativo di sfuggire all'incubo che ha infettato la Nazione di Panem.
Se per sostenere il volto benevolo del regime il caro vecchio Caesar Flickerman( uno Stanley Tucci come sempre impomatato e lucidato quanto basta) può avere nel suo salotto nientemeno che un Peeta Mellark soggiogato e psicologicamente trasformato dalle torture ripetutamente inflittegli, per vincere la Guerra della Propaganda i ribelli non possono accontentarsi di mettere sotto i riflettori la loro preziosa Ghiandaia Imitatrice: più importante dell'esistenza del simbolo stesso, del carisma di Katniss e della sua straordinaria popolarità fra i deboli e gli oppressi, è la presenza di montatori e registi esperti in grado di vendere e diffondere un prodotto più sensazionalistico, galvanizzante e commovente di quello proposto dai canali concorrenti, realizzando riprese in location e consacrando l'eroina fiammante e arrabbiata che le folle desiderano vedere.
Un ritornello tristemente conosciuto, che si allontana dal consolatorio terreno della realtà alternativa e ci sbatte in faccia un mondo assorbito dall'uso della comunicazione collaterale, deciso a vincere le sue battaglie postando proclami su twitter e youtube e ad alterare l'umana percezione del reale spingendo di gusto sul pedale del pietismo di massa; un nodo che si stringe forte, intorno al collo dell'America che è stata e che potrebbe continuare ad essere, intonando con The Hanging Tree un canto della rivolta da brivido che riecheggia con coscienza il lamento degli schiavi delle vecchie piantagioni degli States.
Mentre la galleria dei personaggi secondari trova due prime donne d'eccezione nell'algida presidentessa Coin di Julianne Moore e nella spavalda regista Cressida di Natalie Dormer, Jennifer Lawrence risulta per la prima volta un po' sopra le righe nel ruolo della luminosa Stella Katniss Everdeen, probabilmente a causa della stessa immagine plastificata che i Nuovi vertici della Rivoluzione tentano di cucirle addosso con la stessa spietata determinazione di coloro che li hanno preceduti nell'impresa: non aiuta in tal senso la tronca evoluzione del triangolo amoroso col Gale di Liam Hemsworth, protagonista maschile mai venuto fuori davvero del tutto e perennemente oscurato dalla personalità del più interessante Peeta di Josh Hutcherson; doverosa e tristemente necessaria la menzione per Philip Seymour Hoffmann, che grazie all'ambiguo stratega e pur abile manipolatore Plutarch Heavensbee ci regala un'ultima, per quanto piccola, splendida interpretazione.
A suo agio negli scenari post apocalittici sin dai tempi di I am Legend, l'ormai veterano Francis Lawrence dirige una pellicola che alterna pochi ma tesissimi scatti d'azione a un lunghe ma efficaci pause contemplative rivolte non solo ai dubbi dei protagonisti ma anche alla sofferenza e alla furia del popolo dei Distretti, decimato dei suoi figli ma mai sconfitto nello spirito; il tempo dei giochi di sangue è finito, la lotta per la vittoria reclama una libertà che vale più della vita stessa e la nostra ansia di proseguire sull'intelligente cammino tracciato da Suzanne Collins resta immutata: ciononostante, attendiamo ancora con ansia il giorno in cui la macchina di Capitali che governa l'Industria cinematografica la smetterà finalmente di frustrare le nostre storie, stiracchiandole oltremisura perché non possano raggiungere un epilogo naturale e necessario e abbandonando gli spettatori in un limbo faticoso e esasperante.
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