Col senno di poi è difficile pensare che un assassino così spietato e allo stesso tempo così dedito e aggrappato al benessere della sua famiglia, potesse essere interpretato da un attore diverso da Michael Shannon, sostanzialmente perfetto in una parte che gli chiedeva di passare, in maniera scostante, dal classico sguardo cattivo, rabbioso e crudele al più rassicurante e rilassato sorriso di un padre riservato e silenzioso. Ed è su queste doti che Vromen punta per far funzionare il suo "The Iceman", mettendo da parte gli omicidi, gli incarichi e la malavita per aprire il più possibile lo sguardo sul privato e sull'analisi interiore di un uomo che deve fare i conti con un passato che lo ha condizionato e continua a perseguitarlo, minacciando un presente già ricco di pericoli di cui però non riesce a fare a meno e con cui rischia di mettere a repentaglio non solo il suo futuro, ma soprattutto quello di coloro per cui si prende cura e a cui nasconde la sua reale identità. Cerca di mettere in duro contrasto entrambe le parti la pellicola, suggerendo una lotta interna tra demoni che vorrebbero uscire e una volontà di redenzione che cerca attraverso il soffocamento e la rabbia di contenere quello che potrebbe essere il male più puro, quel male di cui Kuklinski è infetto, portatore, ma che prova, con l'amore per la moglie e per le sue due figlie, ad estirpare e a sconfiggere.
Chiude pertanto con un punteggio assai meno alto di quanto inizialmente si potesse pensare Vromen, incapace di sfruttare come si deve sia un cast di livello e in forma e sia una storia che, per quanto abituale, per un lasso di tempo aveva dato l'illusione di potersi rivelare stimolante. O perlomeno così sarebbe potuta essere, se quell'ingenua scivolata non avesse reso ogni cosa vana.
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