Si spera sempre che questi biopic siano migliori delle aspettative, perché in periodo di corsa agli Oscar ad ogni cinefilo sale un pochino di puzza sotto il naso. The imitation game si presenta come il classico biopic del classico genio che incredibilmente segna la storia dell'uomo, in questo specifico caso modificando i pronostici della seconda guerra mondiale. In un certo qual modo è così: il film non mostra il suo vero volto da subito, serbando il meglio per il finale, per l'ultima angosciante mezz'ora carica di grande cinema. Nell'attesa possiamo goderci un Benedict Cumberbatch in stato di grazia che interpreta Alan Turing, matematico a cui si deve l'invenzione del moderno computer e che riuscì a decrittare il codice nascosto dietro la terrificante macchina denominata dai nazisti Enigma. Ma la storia della guerra e di come l'Inghilterra favorì la vittoria degli alleati è presto accantonata, perché ad interessare il pubblico è l'uomo dietro la macchina, ovvero Turing, genio incompreso insicuro di sé che nasconde le sue debolezze dietro il suo intelletto, palesandole ogni volta che viene stretto all'angolo da chi non si fida di lui e da chi lo guarda con disprezzo (giustificato, visto il carattere impossibile che il protagonista ha sviluppato nel corso della sua vita). Se proprio vogliamo trovare un difetto importante al film è quello di lasciarsi andare troppo alla litania dei flashback, con i quali deve necessariamente farci capire come e perché Turing sia diventato il personaggio che ci viene mostrato sullo schermo; qualche non-detto in più avrebbe gratificato maggiormente gli spettatori più attenti ed esigenti. Ma queste piccole necessità atte a raggiungere un ampio pubblico (indi compresi i membri dell'Academy) gliele si perdonano, vista la seconda parte che viene imbastita, la quale mostra degli uomini obbligati al silenzio, votati all'omertà per evitare di rendere vani i risultati appena raggiunti. Ma non solo: finita la guerra noi siamo lì, con Turing e i suoi scheletri nell'armadio che vengono svelati e messi di fronte ad un giudice, il quale deciderà in maniera obiettiva seguendo la legge dell'epoca. E alla fine, mentre Benedict Cumberbatch si lascerà divorare dagli spasmi farmacologici e Keira Knightley sarà lì a sostenerlo (con qualche frase un po' retorica, certo, ma niente di eccessivamente melenso), noi aspetteremo il suo ultimo sorriso e le luci dello sgabuzzino che si spengono su Christopher, la sua creazione e il suo unico amore, mentre un taglio di montaggio ci farà tornare indietro al giorno in cui la squadra di crittografi capitanata da Turing venne sciolta e i titoli ci spiegheranno che cosa successe al protagonista dopo il momento in cui il film interrompe la sua narrazione cronologica. Forse inizierete a pensare a come sia possibile che l'Inghilterra, una nazione alleata, potenzialmente dalla parte del bene, potesse trattare gli omosessuali in una maniera spietata quasi quanto i nazisti, e forse assocerete il nome di Alan Turing a quel tanto decantato Galileo Galilei, il quale dovette aspettare Giovanni Paolo II per ottenere le scuse della Chiesa, e farete fatica a pensare che, nonostante gli anni di distanza tra il 1642 e il 1954, e nonostante le moderne tecnologie, l'umanità e di conseguenza la società si siano evolute così poco. C'è tanto, in quell'ultima mezzora, su cui riflettere: il mio consiglio è quello di recuperare il film e sorvolare sulle scelte più semplicistiche di Morten Tyldum, regista norvegese scelto per capitanare questa nave apparentemente come tante altre navi ma in realtà piena di tante cose da offrire.
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Si spera sempre che questi biopic siano migliori delle aspettative, perché in periodo di corsa agli Oscar ad ogni cinefilo sale un pochino di puzza sotto il naso. The imitation game si presenta come il classico biopic del classico genio che incredibilmente segna la storia dell'uomo, in questo specifico caso modificando i pronostici della seconda guerra mondiale. In un certo qual modo è così: il film non mostra il suo vero volto da subito, serbando il meglio per il finale, per l'ultima angosciante mezz'ora carica di grande cinema. Nell'attesa possiamo goderci un Benedict Cumberbatch in stato di grazia che interpreta Alan Turing, matematico a cui si deve l'invenzione del moderno computer e che riuscì a decrittare il codice nascosto dietro la terrificante macchina denominata dai nazisti Enigma. Ma la storia della guerra e di come l'Inghilterra favorì la vittoria degli alleati è presto accantonata, perché ad interessare il pubblico è l'uomo dietro la macchina, ovvero Turing, genio incompreso insicuro di sé che nasconde le sue debolezze dietro il suo intelletto, palesandole ogni volta che viene stretto all'angolo da chi non si fida di lui e da chi lo guarda con disprezzo (giustificato, visto il carattere impossibile che il protagonista ha sviluppato nel corso della sua vita). Se proprio vogliamo trovare un difetto importante al film è quello di lasciarsi andare troppo alla litania dei flashback, con i quali deve necessariamente farci capire come e perché Turing sia diventato il personaggio che ci viene mostrato sullo schermo; qualche non-detto in più avrebbe gratificato maggiormente gli spettatori più attenti ed esigenti. Ma queste piccole necessità atte a raggiungere un ampio pubblico (indi compresi i membri dell'Academy) gliele si perdonano, vista la seconda parte che viene imbastita, la quale mostra degli uomini obbligati al silenzio, votati all'omertà per evitare di rendere vani i risultati appena raggiunti. Ma non solo: finita la guerra noi siamo lì, con Turing e i suoi scheletri nell'armadio che vengono svelati e messi di fronte ad un giudice, il quale deciderà in maniera obiettiva seguendo la legge dell'epoca. E alla fine, mentre Benedict Cumberbatch si lascerà divorare dagli spasmi farmacologici e Keira Knightley sarà lì a sostenerlo (con qualche frase un po' retorica, certo, ma niente di eccessivamente melenso), noi aspetteremo il suo ultimo sorriso e le luci dello sgabuzzino che si spengono su Christopher, la sua creazione e il suo unico amore, mentre un taglio di montaggio ci farà tornare indietro al giorno in cui la squadra di crittografi capitanata da Turing venne sciolta e i titoli ci spiegheranno che cosa successe al protagonista dopo il momento in cui il film interrompe la sua narrazione cronologica. Forse inizierete a pensare a come sia possibile che l'Inghilterra, una nazione alleata, potenzialmente dalla parte del bene, potesse trattare gli omosessuali in una maniera spietata quasi quanto i nazisti, e forse assocerete il nome di Alan Turing a quel tanto decantato Galileo Galilei, il quale dovette aspettare Giovanni Paolo II per ottenere le scuse della Chiesa, e farete fatica a pensare che, nonostante gli anni di distanza tra il 1642 e il 1954, e nonostante le moderne tecnologie, l'umanità e di conseguenza la società si siano evolute così poco. C'è tanto, in quell'ultima mezzora, su cui riflettere: il mio consiglio è quello di recuperare il film e sorvolare sulle scelte più semplicistiche di Morten Tyldum, regista norvegese scelto per capitanare questa nave apparentemente come tante altre navi ma in realtà piena di tante cose da offrire.
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