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"The Imitation Game", è il film che ora vorrebbe raccontare la sua storia. Una storia che a causa della collaborazione militare segreta è rimasta celata per cinquant'anni e che per merito della grazia postuma ricevuta un anno fa dalla Regina, si fa repentinamente, per certi versi, quasi necessaria e urgente. Tant'è che non ha la minima intenzione di lasciarsi dietro nulla la pellicola diretta da Morten Tyldum, anzi, vuole farsi carico di ogni aspetto, ogni dettaglio e di ogni sfumatura a disposizione: dall'Alan Turing uomo a quello professionale, dagli avvenimenti storici di guerra al maschilismo e alle chiusure conservatrici in vigore a quel tempo.
Molto, anzi, troppo per un biopic impostato per avere durata inferiore a due ore.
E' evidente allora che nella sceneggiatura scritta da Graham Moore - adattata dal libro "Alan Turing. Una Biografia" di Hodges Andrew – sia presente un taglio deciso e praticamente obbligato, adagiato attorno all'avvenimento più rilevante e incredibile della carriera del talentuoso protagonista: la creazione della macchina decriptatrice Cristopher, complice di aver contribuito a sconfiggere i tedeschi e aver ridotto la durata della Seconda Guerra Mondiale di quasi due anni.
Nasce quindi tendenzialmente come un thriller "The Imitation Game", con le ricerche e i tentativi (infiniti) di un team di esperti, assunto appositamente dalla Gran Bretagna per contrastare il dominio tedesco di una guerra altrimenti impossibile da ribaltare. Ma se questo, potremmo dire, essere lo scheletro della pellicola, il suo bastone di sicurezza, con cui proteggersi e non cadere di faccia, è evidente che dietro esso sia visibile un'intera serie di muscoli importantissimi a cui purtroppo non viene concesso meritato sviluppo, ma solo delle leggere contrazioni. Più della parentesi Cristopher infatti - a cui viene destinato uno spazio eccessivo e allargato - era necessario approfondire il tema legato all'Alan Turing essere umano, rappresentato nella storia come persona meccanica sia nei comportamenti che nei sentimenti, esattamente come sa essere ironicamente Sheldon Cooper nella serie tv "The Big Bang Theory". Una raffigurazione particolare, dunque e per niente originale, ma comprensibile secondo alcune esigenze cinematografiche e di copione: quale altro soggetto poteva essere in grado di inventare un cervello elettronico se non chi elettronicamente era già abituato a pensare?
A mancare però a "The Imitation Game" è proprio la capacità di andare oltre gli eventi e i fatti, e quindi il riuscire a inquadrare e a spiegare ciò che ormai fa parte dello scritto e del constatato. Perché così come i comportamenti di Turing vengono elaborati e giustificati con pochi flashback, energicamente vuoti e incompleti, anche i suoi problemi con l'omosessualità vengono appena abbozzanti e trattati, un modo di agire che la pellicola applica persino con il personaggio di Keira Knightley, evitando un discorso legato alla differenza di sessualità che inizialmente pare voler prendere in considerazione, ma poi lascia nel dimenticatoio, allo stesso modo di come fa con la guerra sullo sfondo, di cui si ostina a mostrare immagini, sinceramente, sorvolabili e posticce, invece di limitarsi a inserirla, al massimo, in qualche dialogo.
Come prevedibile perciò quello di Tyldum non può che uscir fuori come un biopic onesto e generico, in cui forse è possibile rintracciare vagamente la figura di Turing e del suo operato, ma in cui non è assolutamente possibile entrare dentro la psicologia, le sensazioni e i sentimenti di un uomo criptico ed enigmatico come i progetti a cui amava dedicarsi. Un biopic da entry-level, insomma, a cui magari non era richiesto di più, ma che comunque non mancava di materiale per poter spingersi oltre.
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