Come dicevo prima, film del 2005, e recensione che cagheranno in tre. Me compreso. Ma non importa, credo che ne valga la pena.
Anche perché, come spesso accade, la realtà trova strane e impreviste affinità. Proprio oggi l’amico Alex ha postato un discorso sul guardarsi attorno come fonte d’ispirazione.
Ebbene, sono impegnato nella stesura di un paio di racconti. Uno di questi apparterrà a una serie, ovvero prevede sempre lo stesso personaggio (lo trovate qui sopra, in evidenza, su sfondo celeste) che, almeno nella mia mente, ha le fattezze di Keira Knightley.
E così io guardo l’attrice e ne apprendo movenze e mimica, per quanto modificate dallo stare interpretando un ruolo.
Keira Knightley che, insieme a Adrien Brody, è protagonista di questo The Jacket. Film che non vidi a suo tempo, ma che per esigenze d’ispirazione ho recuperato proprio ieri sera.
Film che, dopo quanto affermato nell’articolo precedente, in Italia non ha ragione di esistere, perché contaminato da elementi fantastici.
Peggio ancora! Film che parte dalla storia vera: la Guerra del Golfo, e traccia un suo arco narrativo sfociando abbondantemente nel fantastico.
In pratica, secondo la logica italica: da plotone d’esecuzione.
Invece considerato, all’estero, tanto interessante da investirci sopra un sacco di soldi.
C’è stato un tempo in cui Adrien Brody era un attore. Uno bravo. In The Jacket ancora credeva così tanto nel proprio mestiere che chiedeva al regista, John Maybury, di essere rinchiuso in uno scompartimento per cadaveri, fasciato in una camicia di forza, anche fuori dal set, per meglio penetrare la psicologia di Jack Starks, il suo personaggio.
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Jack Starks è un reduce del Golfo che, a suo dire, è morto due volte.
Inizio Hitchcockiano per The Jacket che, oso affermare, fino alla prima mezz’ora è un film eccellente.
La costruzione del reduce di guerra non è banale, per una volta, l’interpretazione di Brody è ottima e, proprio alla mezz’ora c’è la svolta surreale che ti ribalta: perché Jack, dal 1993 si ritrova catapultato, nel giro di uno stacco, nel 2007.
Tutta la restante parte del film è naturalmente concentrata sullo scoprire come e perché tale salto temporale, che è ripetuto in determinate circostanze, avviene, e cosa voglia significare. E come mai la voce narrante del protagonista sostenga di “essere morto due volte”.
Il film si perde lungo la strada, inserendo elementi non proprio legati alla trama, come la parallela cura di un bambino autistico, una scena di sesso girata in modo orribile, anche se in quest’ultimo caso Maybury ha la scusante, visto che pare sia stata rovinata di proposito con rallenty, musichetta softcore e tagli sparsi perché il pubblico male aveva reagito alla scena originale, girata con piglio realistico, durante una proiezione in anteprima, e chiudendo il tutto con un finale zuccheroso e molto, molto approssimativo.
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Ma, finale a parte, che ci può stare o meno, a seconda che prediligiate il dramma o la favola (io sono per il dramma), e al di là delle leggende metropolitane legate al Bangor Village Hospital, un complesso ospedaliero psichiatrico abbandonato, che sorge vicino a Edimburgo, in Scozia, e che sembra, come ogni luogo scozzese che si rispetti, fosse infestato dai fantastmi, gli aspetti interessanti di The Jacket sono legati a
a) la concezione del tempo
Che è un continuum onnipresente. Quindi da non considerare una linea che venga percorsa avanti e indietro, alla velocità della luce, ma, in accordo con le moderne teorie speculative, come un assoluto sempre presente a se stesso.
Anche se, a tal proposito, dovrebbero spiegarmi perché Jack, dall’interno del loculo, si sveglia fuori, in strada, sempre nei pressi del luogo in cui si trova Keira e non, come logica vorrebbe, nello stesso loculo, solo quattordici anni nel futuro. E perché proprio quattordici anni.
b) la deprivazione sensoriale
Che è una tecnica di rilassamento, associata a una vasca, che induce alla modificazione delle frequenze cerebrali attraverso l’isolamento dai sensi e al raggiungimento di uno stato di coscienza alterato, alla meditazione.
Della vasca di deprivazione sensoriale se n’è occupato Ken Russell in Stati di Allucinazione e anche io in questo articolo divulgativo.
Qui, in luogo della vasca c’è un loculo di una camera mortuaria, e più che meditare si finisce col viaggiare nel tempo in seguito a uno squilibrio cerebrale, ma il senso è il medesimo.
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Per gusto personale, io ho preferito la realtà brutale che a un certo punto si manifesta al protagonista: ragazza alcolizzata, case poverissime, freddo, notti nevose, miseria.
In quelle scene il film tocca vertici di interesse elevatissimi.
Poi c’è tutto il resto, cominciano le domande: come mai Jack viene processato per l’omicidio del poliziotto se non ci sono impronte sulla pistola (visto che il vero assassino la pulisce) e sulla scena ci sono sicuramente tracce di pneumatici di un veicolo che si allontana?
Come mai Rudy (Daniel Craig), altro ospite della struttura psichiatrica insieme a Jack, conosce anche lui la possibilità di fare viaggi una volta chiusi nel loculo?
E altre cose del genere.
Però, ehi, il film è intrigante proprio nella sua componente fantastica. Toglietela e vi ritrovereste con l’ennesimo film su un reduce di guerra un po’ toccato, vessato da una struttura psichiatrica brutale.
In breve, un capolavoro all’italiana.
Non so se ridere o piangere. Voi comunque recuperatelo, se vi va.
Indice delle recensioni QUI
Ottima soundtrack, tra l’altro…