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The Killer Inside Me

Da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

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Innumerevoli sono le trasposizioni per il grande schermo che non hanno reso un buon servizio alla rispettiva origine cartacea, poche, per non dire rare, al contrario, le occasioni che hanno visto l’adattamento cinematografico essere all’altezza del potenziale espresso dalle pagine del libro. Quest’ultimo non è sicuramente il caso di The Killer Inside Me, nuova pellicola diretta da Michael Winterbottom che riporta al cinema, a trentaquattro anni di distanza dal fallimentare tentativo di Burt Kennedy, l’omonimo capolavoro firmato da Jim Thompson nel 1952.

Anche se post visione resta un forte amaro in bocca per l’ennesima opportunità gettata al vento, ossia quella di mettere in quadro la storia di un best seller dalla straordinaria forza narrativa e drammaturgica, definito da Stanley Kubrick «Il più grande romanzo su una mente criminale che sia mai stato scritto», in cuor nostro ci sentiamo comunque in dovere di assolvere in parte (anche se dall’altra lo vorremmo punire severamente per averci solamente provato) il regista britannico dall’aver compiuto un simile passo falso, vuoi perché trasformare in immagini le lezioni letterarie poliziesche in salsa pulp dello storico scrittore statunitense è impresa più che ardua, vuoi perché, in particolare, The Killer Inside Me è senza ombra di dubbio il più complesso tra i circa trenta romanzi che vanno a comporre la sua bibliografia. Molti di questi sono diventati film, alcuni dei quali di ottima levatura (Colpo di spugna di Bertrand Tavernier del 1981 da “Pop. 1280”, Più tardi al buio di James Foley del 1990 da “After Dark, My Sweet”, Rischiose abitudini di Stephen Frears del 1990 da “The Grifters”, Il fascino del delitto di Alain Corneau del 1979 da “A Hell of a Woman” e il Getaway! di Sam Peckinpah del 1972 dall’omonimo scritto del 1959), altri da destinare nel dimenticatoio come la versione datata 1994 di Roger Donaldson di Getaway e ovviamente l’ultima fatica inserita nell’altalenante filmografia di Winterbottom. Non è un caso, allora, che a funzionare siano proprio le trasposizioni delle opere di Thompson sceneggiatore di se stesso (Più tardi al buio e Rischiose abitudini tra gli otto tentativi), mentre per quelli che non hanno potuto contare su un tale apporto in fase di riscrittura filmica il destino è stato diverso e sicuramente meno felice (tranne alcuni casi sopraccitati, vedi Corneau e Tavernier). Del resto, non bisogna dimenticare che alla proficua carriera di romanziere, Thompson ha alternato l’altrettanto fortunata esperienza nella Settima Arte in veste di sceneggiatore al fianco ad esempio di Kubrick in pietre miliari del calibro di Rapina a mano armata del 1956 (da “Clean Break” di Lionel White), Orizzonti di gloria del 1957 dall’omonimo romanzo di Humphrey Cobb, e il trattamento di Killer at Large che non fu mai realizzato.

Per quanto riguarda The Killer Inside Me, l’anello debole nell’intera operazione è rintracciabile proprio nello script di John Curran che, a conti fatti, non sembra mai in grado di gestire la scrittura asciutta, la sottigliezza ironica, le atmosfere soffocanti e morbose, oltre alla cervellotica struttura a incastro affidata al racconto in prima persona di un narratore poco affidabile per follia e freddo distacco, violento e machiavellico come pochi altri killer (l’Hannibal Lecter de Il silenzio degli innocenti, Il Kayser Söze de I soliti sospetti e il John Doe di Seven) apparsi sulle pagine di un libro o sullo schermo di un cinema fino a questo momento, che caratterizzano il dna dell’opera di Thompson. Il risultato è una trasposizione che cede inesorabilmente sotto il peso dell’inconsistenza, sulla quale si ritorce il tentativo stesso di rimanere il più fedele possibile alla matrice originale. Ma se così fosse, dove è andato a finire l’elemento chiave del romanzo, vale a dire la capacità del suo autore di trasferire una materia narrativa atroce, attraverso il filtro di un surreale che non esclude persino la pietà del lettore nei confronti del protagonista? Curran sembra essersene dimenticato, oppure ha preferito trascurarlo, perché resosi conto troppo tardi di quanto difficile potesse essere riportarlo in una sceneggiatura. Di conseguenza gli elementi sui quali ha deciso di concentrarsi sono quelli tipici del genere nel quale va così faticosamente ad iscriversi, ossia il serial-thriller. Ma ciò che ne emerge è un mix squilibrato dagli ingranaggi fragili che prova a mettere insieme, nel peggiore dei modi, il poliziesco con il noir, passando attraverso una bieca requisitoria contro le porcherie del mondo, una scialba parabola sul male tinta di rosso sangue che porta in scena il ritratto di un miserabile che non è altro che uno spietato senza emozioni e lucido esecutore.

Da parte sua Winterbottom, qui alla sua prima esperienza produttiva a stelle e strisce, si affida al cast a sua disposizione per mantenere a galla la pellicola e in particolare a Casey Affleck che, nel ruolo del protagonista, regala allo spettatore un’altra ottima interpretazione dopo quella de L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford (2007) di Andrew Dominik, sempre misurata anche quando il suo sceriffo Lou si abbandona alla violenza (ricorda il killer interpretato da Javier Bardem in Non è un paese per vecchi dei fratelli Coen). Dal punto di vista tecnico-stilistico questa è forse la performance più piatta del regista inglese, capace di discreti assolo (Go Now, Cose di questo mondo, Le bianche tracce della vita, Benvenuti a Sarajevo, Jude e The Road to Guantanamo) e di brusche frenate (Genova, With or Without You, Codice 46 e A Mighty Heart). Poche idee visive mal distribuite e pericolosi passaggi a vuoto che rendono la successione delle immagini prevedibile, ridondante e prolissa, quasi soporifera.

Presentato in concorso alle ultime edizioni del Sundance e del Festival di Berlino, il film approda nelle sale nostrane per mano della Bim, ma non prima di essere stato oggetto di qualche assurdo e immotivato taglio di montaggio operato qua e là per smorzarne la violenza di qualche scena (in particolare nella scena del pestaggio a morte da parte del protagonista nei confronti del personaggio della prostituta interpretata da Jessica Alba). Come sempre ci chiediamo il perché, anche se nel caso di The Killer Inside Me nessuno sano di mente attribuirebbe la mancata riuscita della pellicola ai tagli nel final cut, perché i problemi sono altri e grossi.

Francesco Del Grosso


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