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Witterbottom non è uno che si lascia intimorire e, dando seguito ad un eclettismo condizionato da una prolificità funzionante a fasi alterne, si cimenta nel più classico dei generi, traducendo per il cinema l’omonimo capolavoro noir di Jim Thompson. Ambientato in un America ancora affetta dalla sindrome di un sogno da cui si sarebbe tristemente risvegliata, “The Killer Inside me” è una dichiarazione sull’impossibilità di essere normali ed insieme il ritratto di una personalità costretta a fare i conti con i fantasmi di un passato che non si può cancellare. In questo senso Lou Ford, sceriffo per necessità ed assassino per vocazione, è il prototipo di un umanità assuefatta al proprio orrore fino al punto di alimentarlo nella completa accettazione di questa anomalia. L’omicidio, così come la violenza, esercitata in un crescendo di sangue e crudeltà, non entrano mai in competizione con alcuna ipotesi di bene ma sono il risultato consapevole di un percorso viziato dagli abusi di una madre bambina e dall’omertà di una società che preferisce nascondere ciò che non si può mostrare.
Ma è proprio qui, in questo spazio da riempire per evitare di essere già morti che si inserisce il vitalismo contorto di un personaggio privo di attrattive e lontano dal fascino perverso dell’antieroe criminale: un “American Psycho” con la faccia ordinaria e le abitudini scontate a cui viene negato persino l’apparenza di una virilità (“la mancanza di lavoro” è la scusa per non portare la pistola) altrimenti sacrificata alla viltà delle sue azioni. Alle prese con una materia “incandescente” non tanto per il surplus di misoginia evidentemente ribadito nella visibilità fin troppo insistita di certe scene, ma piuttosto per il tentativo di analizzare la “malattia” con quegli stessi strumenti che l’hanno prodotta (la mente dell’assassino ritorna anche nella voce fuori campo annullando qualsiasi tentativo di oggettività), Winterbottom si limita a riassumere il romanzo non riuscendo a farci entrare nel cuore di tenebra del suo protagonista. Immerso in una fotografia che riproduce in maniera stucchevole il quieto malessere di un paesaggio di matrice Hopperiana, il regista sembra più preoccupato a ricreare un estetica che a fornire il senso logico di una storia che procede alla cieca, senza alcuna plausibilità nella costruzione di una detection che seppur depotenziata dalla'assoluta centralità del protagonista rimane pur sempre il mezzo più efficace per tirare le fila di motivazioni che in questo caso rimangono ad un livello di superficialità tale da invalidare la necessità dell’intera operazione. Accompagnato dalla voce strascicata del suo protagonista, un Casey Affleck dall’espressione insondabile, “The Killer inside me” rischia di essere ricordato solamente per il sadismo delle sofferenze inferte alla compagine femminile che per il contributo ad un genere per alcuni registi ancora improponibile.
(recensione pubblicata su ondacinema.it)
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