Se prendiamo per buona la pagina di Wikipedia (link) dedicata a The Last Stand (2013) ecco che le informazioni snocciolate al suo interno ci danno un quadro significativo di questo progetto: pare che lo script, scritto inizialmente da un aspirante sceneggiatore di nome Andrew Knauer, sia poi passato nelle mani di due mestieranti statunitensi che hanno rivisto e corretto quanto c’era da rivedere e correggere. Kim, dunque, si è ritrovato sulla sua scrivania coreana un manoscritto pronto per essere tramutato in immagini, e per fare ciò Di Bonaventura gli ha messo a disposizione un qualcosa come 30 milioni di sonanti dollaroni ed un cast diviso fra vecchie canaglie (Schwarzenegger e Whitaker), icone “di un certo tipo” (Knoxville), starlet di carta velina (Génesis Rodríguez) e non un, ma IL caratterista d’oltreoceano per eccellenza (Dean Stanton). Di fronte ad una tale dose di americanità lo spettatore curioso era ansioso di vedere le modalità con cui un autore dall’indubbio talento così bravo a scorrazzare sui e nei generi si fosse avvicinato ad un cinema che spinge invece all’omologazione, al sacrificio della sostanza in favore dello Spettacolo: allo show prima di tutto. La speranza (mia) era che Jee-won anche se invitato a lavorare una pietra originariamente non sua riuscisse comunque ad imprimere il-fare-arte che contraddistingue lui e tutta la cinematografia orientale, insomma sarebbe stata una grande goduria se Kim avesse schiaffato sugli schermi yankee anche soltanto una copia sbiadita di I Saw the Devil (2010).
Invece bisogna prendere amaramente atto che il film in questione ha pochissimo dell’auspicata vena sovversiva mentre ha tantissimo dell’omogeneità a stelle e strisce. La cosa era prevedibile per quanto riguarda la mera storia che oltre a presentare una serie di situazioni al limite della credibilità (e ci può stare, per carità), cataloga una squadra di personaggi i cui singoli profili sembrano delineati da un settenne che gioca con i soldatini; chiaramente la contrapposizione tra buoni e cattivi è manichea fino al midollo, e ancor più chiaramente, una volta incastrati – si fa per dire – i vari tasselli, ci tocca l’ennesimo pistolotto di eroismo americano attorniato da una fraccata di cliché narrativi iper-appiattenti. Ad un certo punto, poco prima che giungesse Cortez per la resa dei conti (a proposito, trovo Noriega assolutamente inadatto nel ruolo di antagonista), è sembrato quasi che la pellicola potesse prendere una piega parodistica, ovvero che parodizzasse il genere d’appartenenza facendo il verso ai meccanismi del cinema d’azione. Fuoco fatuo, il tutto poi prosegue e conclude nei soliti binari prestabiliti (uno spiraglio col finale: apprezzabile l’ambientazione). Ma questo e altro ancora era pronosticabile perché le leggi dettate dal business non potranno certo essere violate da un “regista qualunque” che arriva dalla Corea del Sud [1], allora, l’ultimo baluardo cinefilo si posizionava sulla forma che ci si augurava in grado di regalare qualche fioritura su un manto presumibilmente convenzionale. Ahinoi, le attese sono state disattese dalla visione: ci sono botte e botti, c’è ritmo, scene pirotecniche girate con maestria, (qualche) frase ad effetto, inseguimenti, (un po’ di) sangue, tutti elementi che però sono rintracciabili a prescindere nel modello classico di qualunque action-movie, ed è difficile pensare anche ad un’operazione nostalgia in stile Mercenari poiché manca il substrato citazionistico e la voglia di fare del proprio film un tributo ad un’epoca, caratteristiche peculiari che contraddistinguevano Stallone e soci e che qui non sono presenti.
In definitiva questa trasferta occidentale di Kim Jee-woon trova sintesi quanto mai efficace in un simbolo, questo: $. Per il resto meglio fare una colletta e comprare a Kim un biglietto di sola andata destinazione Seul. _____[1] Mai dire mai. Park Chan-wook, smentiscici con Stoker (2013).