Mettiamo un po’ di musica, intanto.
Calma, molta calma…
Lo dico a me stesso, operché quando si tratta di Arnold Schwarzenegger vado fuori di testa, lo sapete.
Ebbene, quello che segue è un giudizio a caldo su The Last Stand – L’ultima sfida, visto ieri sera. Forse col tempo maturerà, forse no, perché lo Zio troverà in me sempre un tifoso accanito.
Comunque, per farla breve, The Last Stand è epico.
Punto.
E potrei chiuderla qui.
Voglio dire, stavamo tutti lì ad aspettare il ritorno, dopo il non proprio esaltante quadretto fornito da i Mercenari 2 (almeno per ciò che riguardava il nostro preferito), dubbiosi financo dal trailer, diciamolo, anche lui non esaltante. E invece, se ce ne fosse bisogno, è utile ribadire di non giudicare mai dalla copertina.
Poi, chiariamoci, stiamo parlando del genere action inteso da Schwarzenegger, che corrisponde a certi canoni, e lo sappiamo: non è un film dei Dardenne. Non ha mai voluto esserlo, e non si prende sul serio.
Ma.
Perché c’è un ma grossissimo.
Il ma è che The Last Stand non riprende il cinema di Arnold da dove lo avevamo lasciato, quei non troppo brillanti Danni Collaterali, Il Sesto Giorno, etc… che, diciamocelo, erano delle immani cazzate.
Qui si fa un bel salto indietro, fino al decennio aureo, gli anni ’80, incredibile, ma vero.
Arnold è Ray, lo Sceriffo di Sommerton, una cittadina di confine statunitense. Anzi, proprio sul confine col Messico, alle spalle un canyon immenso.
***
Solo che Gabriel Cortez (Eduardo Noriega), narcotrafficante fuggito dalla custodia dell’FBI, s’è messo in testa di attraversarlo, quel canyon, con l’ausilio di un ponte militare (di quelli tirati su in una notte, per intenderci), grazie alla spietata e violenta collaborazione dei suoi seguaci. Sulla sua strada, si mettono lo Sceriffo e i suoi aiutanti.
E lo fanno con una potenza di fuoco devastante.
Jee-woon Kim alla regia. Regia di classe, permettetemi. E lo si vede da pochi, semplici trucchetti nella costruzione dell’intreccio, trucchetti che però fanno capire che ogni dettaglio presentato nel film è stato previsto e ragionato, tanti piccoli fucili di Checov che trovano, dopo mezz’ora, o un’ora e mezza, giusto riutilizzo. Un esempio? All’inizio si vede una Chevrolet parcheggiata in un certo posto, stessa Chevrolet utilizzata da Arnold, alla fine. Primo fucile.
Secondo fucile: un’auto velocissima che sfreccia al buio a 320 km/h. È la Corvette con la quale Cortez ha intenzione di sfrecciare verso il Messico. 1000 cavalli di potenza assoluta. Si vede all’inizio, il suo utilizzo è giustificato.
Terzo fucile: a Sommerton esiste un museo delle armi antiche, della seconda guerra mondiale. Stesse armi che saranno usate dallo Sceriffo e dai suoi per arrestare la minaccia Cortez.
Perfetto.
Poi però, ci si rende conto che una vettura da 1000 cavalli non può viaggiare da Las Vegas al confine col Messico senza fare benzina. Perché, oggettivamente, ha bisogno di un serbatoio grande quanto un silos. E… non viene mai mostrato un rifornimento.
Considerata tutta l’assistenza di cui Cortez gode si può desumere che da qualche parte lungo il tragitto abbia fatto il pieno, ma sarebbe stato bello mostrarlo.
***
Mi sovviene un articolo di David Brin, letto su Locus qualche giorno fa, circa i nostri clichè preferiti, nostri in quanto spettatori. Brin esponeva il suo punto di vista, ovvero che nei film c’è sempre un eroe in conflitto sia contro i nemici che contro le autorità che, per forza, di cose, perché l’intreccio funzioni nell’ingrediente principale, ovvero lo spettacolo, devono essere rappresentate da idioti, incapaci, in modo che l’eroe sia costretto a un doppio scontro, da una parte il criminale, dall’altra lo stato che, con la sua inettitudine, lo ostacola.
Perfetto.
Qui l’autorità è incarnata dall’agente dell’FBI Forest Whitaker che non ne imbrocca una. Non foss’altro il fatto che è riuscito a farsi scappare da sotto il naso un pericoloso narcotrafficante. Peccato per Whitaker, sacrificato in un ruolo che, in tutta sincerità, lo mortifica, considerato il grandissimo attore che è.
Ma tant’è, il meccanismo enunciato da Brin funziona alla perfezione.
Arnold entra a gamba tesa, nel periodo della polemica sulle armi, con un film in cui le armi sono la salvezza, letteralmente. Qualcuno ne trarrà un messaggio, e storcerà il naso.
Io tendo a non dimenticare mai che è uno spettacolo, il film, che non è realtà. E qui chiudo questa parentesi, avendo detto tutto ciò che c’era da dire sull’argomento, per quanto mi riguarda.
***
Schwarzenegger è invecchiato, ha sessantacinque anni e si vedono tutti. Ma questo è il suo cinema, e qui ne dà ampia lezione. Al di là di qualche momento sopra le righe, nel senso che ci si sofferma a dare una sfumatura drammatica a certi avvenimenti non necessaria, The Last Stand resta concentrato sull’azione, trama semplice, semplici conseguenze, orchestrate nella maniera più spettacolare possibile. Oddio, anche troppo, infatti un’altra delle cazzate presenti sono certe acrobazione che Cortez si concede con la sua auto di lusso. Ma sono piccole cose, fortunatamente sotterrate dal resto.
Sangue in CGI, ma anche alla vecchia maniera.
Duelli nella campagna statunitense a base di fucili e visori notturni.
Un nemico inarrestabile, all’apparenza, che si trova la strada sbarrata da un gruppo di pazzi, lo sceriffo e i suoi, che a ogni secondo che passa trascendono, diventando divinità guerriere.
La scena principale, ovvero la sfida, che si svolge nella via primaria del paesello, coi pali della luce tagliati e le macchine messe a barricata.
Autorità mostrate inette perché tutto potesse condurre a una forma di guerra privata, combattuta in una paesello isolato.
Un autobus scolastico che irrompe nel mezzo della battaglia a colpi di fucili e mitragliatori, e dal retro spunta lui, Arnold, con una mitragliatrice gaitling, sventagliando piombo rovente, in un crescendo di spettacolo esplosivo.
Uno dei nemici colpito da una pistola a razzi… combattimenti con le pistole in stretti corridoi e scale.
C’è di tutto. Persino gli scontri corpo a corpo. Ma, come detto, Arnold ha una certa età, non è più veloce come un tempo, si concede una battuta per sottolinearlo e via, un combattimento sul ponte che, tutto considerato, è realistico.
A parte qualche piccolo richiamo, la spada di Conan mostrata nel suddetto museo delle armi, e qualche piccola battutina, non c’è un diluvio citazionista o di motti di spirito che avrebbe minato l’atmosfera.
Questo è Arnold dove l’avevamo lasciato da ragazzi.
Ci sei mancato.
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