Ecco un pezzo molto interessante che ho trovato nel libro su Audrey Hepburn e Colazione da Tiffany di cui vi parlavo qualche post fa. Ci sono moltissimi motivi per amare il nero, come scoprirete leggendo!
Nei tempi antichi, il nero era appannaggio esclusivo dei ricchi, ma, a partire dal diciassettesimo secolo, le classi più facoltose lo abbandonarono in favore dei colori sgargianti.
Nell’era vittoriana- all’origine della nostra visione contemporanea del nero- era riservato quasi esclusivamente al lutto. Pareva automatico sceglierlo come sfumatura emblematica della morte, considerato che, nel corteggiamento, il colore contribuisce alla seduzione.
Tradizionalmente è un ornamento femminile, e più sono sgargianti, più le donne riescono ad attirare l’attenzione. Di conseguenza, quelle incolori- poniamo, vestite di nero da capo a piedi- tendono a passare quasi inosservate. Nello sfavillare di un arcobaleno, il nero mimetizza; ha qualcosa di mascolino, in quanto permette di guardare senza essere visti. Il nero è la scelta di chi non ha bisogno di farsi notare. Di chi è autosufficiente e, in ultima analisi, misteriosa. Potente.
E’ un look da maschi. E dunque, cosa accade quando si invertono i ruoli, e sono le donne a vestirsi di nero?
Nel diciannovesimo secolo, quando alla morte del marito le donne erano tenute per anni al lutto stretto, quel colore era un indizio sicuro di vedovanza. Agli uomini di passaggio, segnalava che la donna non era nuova al sesso. Significava esperienza.
Nessuna meraviglia, dunque, che le flapper degli anni Venti lo trovassero tanto attraente. Gli aerodinamici tubini in satin nero delle adolescenti dell’Età del Jazz mandavano un messaggio forte e chiaro: volevano divertirsi.
Chanel colse al volo l’occasione di capitalizzare sulla nuova modernità, e gli abitini neri cominciarono a spuntare come i funghi. Non soltanto erano alla moda, ma con gli anni Trenta diventarono anche molto pratici. Non sembrava giusto vestirsi in modo appariscente come si faceva prima della crisi del 1929 e così, con la funzionalità del sottotono, l’abito nero divenne politically correct. L’austerità era à la page.
E dopo la guerra, con l’ondata del New Look targato Dior, il nero era tornato anche elegante. Il mondo si era rimesso in carreggiata, la gente non doveva più vergognarsi di scialacquare, e alcune donne di gran moda –principalmente in Europa- diedero l’assalto ai boulevard strizzate dentro clessidre nere.
Ma in America, con il riflusso domestico degli anni Cinquanta, l’emblema della femminilità tornò variopinto. Basta guardare i film: solo le carogne indossano il nero. La Margo di Eva contro Eva, La Norma di Viale del Tramonto, e più indietro nel tempo, la Gilda di Rita Hayworth.
Prima ancora che quelle dive aprissero bocca, agli spettatori era sufficiente un’occhiata per sapere che non portavano che guai- ed era il nero a rivelarlo. Sugli uomini era di rigore, ma sulle donne, il nero era un simbolo carico di potere, padronanza sessuale, e capovolgimento della passività tradizionale- tutti elementi che nei film lo rendevano il colore d’eccezione per i personaggi dai quali bisogna guardarsi, e il più delle volte a ragion veduta. Dunque, sul fronte opposto, ecco Doris Day in rosa e azzurro. Siate decorative era la parola d’ordine. Siate floreali, siate femminili, è questo quello che ci si aspetta da voi.
Hubert de Givenchy ricevette il copione di Colazione nell’estate del 1960. Il nero non avrebbe rappresentato una scelta tanto distintiva se a portare l’abito fosse stata una poco di buono; anzi, sarebbe stata la decisione più ovvia. Ma vedere quell’abito indosso ad Audrey Hepburn- e nemmeno di notte, ma la mattina presto- era quantomeno insolito. Trattandosi di Audrey, la ragazza più acqua e sapone del pianeta, c’è dell’ironia nel suo patrocinio di un colore tanto gravido di connotazioni peccaminose. Il contrasto non è soltanto sorprendente, è sofisticato. Il nero su Audrey le dà un’aria di scaltrezza, L’essenza stessa del glamour.
“Givenchy e Audrey ci offrirono uno chic molto realistico, molto accessibile”, è il parere dello stilista Jeffrey Banks. “Tutto d’un tratto, in Colazione da Tiffany, la classe non era più una realtà remota, riservata ai ricchi. Naturalmente, questo aveva a che fare con AAudrey e con ciò che rappresentava agli occhi del pubblico, ma anche con Givenchy”. Diversamente da Balenciaga, Hubert era un naturalista. Puntava a mettere in risalto il corpo così com’è, non a riplasmarlo e ad idealizzarlo. Era convinto che non servissero molti accessori e ornamenti, e disegnava i suoi abiti sulla forma delle donne così come sono, non come lui o la cultura avrebbe voluto che fossero. Nella moda non era mai successo, e quell’approccio tramutò il glamour da inaccessibile a pratico. Dopo Tiffany chiunque, a prescindere dalle possibilità economiche, poteva essere chic, nel quotidiano e in ogni luogo.”
Il little black dress era facile da emulare: qualsiasi ragazza del 1961 poteva cucirsene uno, o permettersi di comprarlo (e lo fecero,eccome). Ovviamente, non tutte potevano vantarne uno di Givenchy, ma non aveva importanza: grazie alla sua semplicità, qualunque abito nero avrebbe funzionato. Il messaggio che trasmetteva era chiarissimo: “non ho bisogno di addobbarmi per impormi. Non mi serve il megafono della moda per far sentire la mia voce. Mi basta essere me stessa”.
La sua efficacia e semplicità fecero dell’abito nero l’uniforme di ordinanza della donna che lavora, e il taglio di Givenchy, diversamente da quello di Chanel, era economico, aderente, e modellato senza orpelli, una severità insolita nel look del tempo- oltre che sottilmente seduttiva.
tratto da "Colazione con Audrey", di Sam Wasson
http://www.fabaudrey.com/
bel sito su Audrey che ho trovato oggi, dove vengono anche descritte le opere benefiche portate a termine grazie all' associazione che porta il suo nome
p.s sorry english readers (aka my friends-haha) this post was way too long to translate it!