Sul finire degli anni ’70, New York venne scossa da un fermento artistico spontaneo e disorganizzato, interessato a trovare una sintesi tra il pop e la musica d’avanguardia e ad indagare sui rapporti della musica con le arti visive. Tale fermento, partendo da una prospettiva Progressive ormai decomposta, era stimolato dalle nuove sonorità british che stavano invadendo la Grande mela, il Punk e la New Wave, pur rivendicando una forte contrapposizione alla deriva commerciale dei nuovi generi, così come all’edonismo sfrenato dell’imperante Disco-music. A connotare questo caos creativo (spesso espresso con una padronanza dei mezzi tecnici ben al di sotto delle ambizioni artistiche) come un movimento più o meno compatto fu una compilation prodotta da Brian Eno nel 1978, intitolata No New York, con la quale il geniale factotum della più raffinata scena pop-rock internazionale intendeva fotografare le esperienze più aggiornate ed estreme dell’Underground newyorkese. Presto si iniziò a denominare questa scena No-Wave, giocando sul titolo del disco, sulla contemporanea ascendenza e contrapposizione nei confronti del più famoso genere britannico e sulla natura dichiaratamente antiprogrammatica e antimusicale del movimento. Accanto alla proposta musicale, si sviluppò un movimento di artisti visivi, dalle Performing arts al cinema.
Tra i vari gruppi presenti nella compilation, la proposta più interessante veniva dai D.N.A., un trio capitanato da un originale e stralunato chitarrista, americano vissuto a lungo in Brasile, al seguito dei genitori, missionari presbiteriani: Arto Lindsay. Questo genietto, dall’aspetto inequivocabile del classico nerd, per via dell’occhialino da intellettualoide, dell’espressione di chi si sente sempre fuori posto e del fisico smunto e malaticcio; questo genietto, dicevo, oltre a portare avanti il progetto dei D.N.A., divenne presto un punto di riferimento della scena No wave e nel 1980 aderì al progetto, fino a quel momento più che altro teorico, fondato due anni prima da due fratelli, il sassofonista John e il pianista Evan Lurie: The Lounge Lizards. In particolare, era John ad avere ben chiare le idee sul tipo di musica da realizzare: un “fake jazz” in cui le reminiscenze della nobile stagione del Free Jazz dovevano convivere con approcci Punk e stilemi bandistici, il tutto amalgamato da un raffinato gusto per lo sberleffo e per l’autoironia. Completati i ranghi con Steve Piccolo al basso e Anton Fier alla batteria, la band pubblicò nel 1981 l’album omonimo. Il risultato fu una fusion straniante ed equilibrata, avanguardistica e primordiale, intellettuale e intrattenitrice.
Intanto, sia i fratelli Lurie che Arto Lindsay venivano assorbiti da altri progetti, non solo musicali. Lindsay si rivolse al Brasile della sua infanzia, portando avanti difficili mediazioni tra il Tropicalismo di Caetano Veloso, l’elettronica e certe atmosfere da aperitivo, destabilizzate dalla consueta verve noise e dissacrante, in particolare con il progetto degli Ambitious Lovers. John Lurie, oltre a curare le musiche per Jarmusch ed altri, è stato apprezzato attore con lo stesso, con Wenders, Benigni, Scorsese, Lynch, Abel Ferrara e Wayne Wang. Anche Evan, dalla fine degli anni ottanta, si è fatto apprezzare come autore di soundtrack, prima per Benigni e successivamente per Buscemi. Ma ritornando ai Lounge Lizards, dopo l’abbandono di Piccolo e Lindsay, rimpiazzati dal trombonista Peter Zummo e dal chitarrista Marc Ribot e con una formula aperta alle collaborazioni, con particolare cura per la sezione fiati, la band tra il 1984 e il 1998, ha pubblicato cinque album in studio (Fusion, 1984; Big heart in Tokio, 1986; No pain for cakes, 1987; Voice of chunk, 1989; Queen of all ears, 1998), oltre a varie registrazioni live.
Pur non essendosi mai ufficialmente sciolti, l’attività dei Lounge Lizards è stata pesantemente limitata dal progredire della malattia di John Lurie, la sindrome di Lyme. Dopo aver pubblicato alcuni lavori solisti e aver creato, diretto e interpretato un singolare programma televisivo, Fishing with John, divenuto format di culto negli States, nel 1999 John Lurie ha pubblicato The legendary Marvin Pontiac, il Greatest Hits di un fantomatico musicista afro-ebreo mai esistito, corredandolo di una dettagliata biografia e delle testimonianza di pezzi da novanta della scena pop-rock, come Bowie, Cohen e Iggy Pop. Dal 2000, a causa della malattia, la sua attività si è limitata alla pittura, creando uno stile originale, basato sulla fusione tra astrattismo, espressionismo e primitivismo.