The Man from London

Creato il 27 maggio 2010 da Eraserhead
Ancora, nonostante sia arrivato in fondo – per adesso – alla filmografia di Béla Tarr, ancora resto letteralmente attonito dal suo usus scribendi unico, così tanto da essere inimitabile che per un autore, presa coscienza dell’impareggiabile opera propria, credo possa essere un discreto vanto. Perché qui come in tutti i suoi film da Damnation (1987) in avanti, il tempo del racconto per Tarr si dilata enormemente prendendosi spazi che altri registi non toccano, che altri registi per dire quello che Tarr dice ci mettono la metà della metà.
Si sa che un film di questo cineasta sarà lento, è la concezione che ha del cinema, la visione personalissima che lo contraddistingue. Ma si sa anche che, armati di pazienza, i piani sequenza interminabili conditi da pesante e rimbombante silenzio, e lo sforzo per non cedere all’interruzione all’abbandono, potrà essere ricompensato da sequenze magnifiche di Cinema da guardare (ma da guardare veramente, perdio) con gli occhi sbarrati.
Accade però, per la prima volta dal Tarr post-Tango, che non venga premiata l’attenzione impiegata durante L’uomo di Londra, si aspetta che prima della fine giunga il preteso miracolo su pellicola che sappia allietare la perseveranza adottata nelle due ore abbondanti di proiezione, che sono sì tarriane nella forma fino al più invisibile movimento, che tuttavia non mostrano niente di veramente ma veramente memorabile: niente danze sfrenate fra ubriaconi incoscienti spiati dall’occhio panottico di un bimbo stanco d’essere, niente balene imbalsamate in un oceano di follia collettiva, niente che vada ricordato sul serio, tenendo a mente che comunque è un film di Béla Tarr, e mal che vada assisterete a qualcosa che aldilà del bene e del male contiene dentro una bellezza rara.
Poi. Poi anche la sostanza dei contenuti è dissolta, qui. Ci sono testi sotto e messaggi da carpire, piuttosto flebili però, illuminanti poco, troppo poco da non uscire oltre l’involucro noir che avvolge l’opera.
Andando nello specifico.
Quel bianco e nero, quello sporco e perfetto, quello c’è?
Sì sì, c’è, e si vede già con l’inizio tra i vapori della nave e il petrolio del cielo notturno a creare un contrasto dicotomico. Non è “sporco” però, anzi il paesaggio marino del porto con i suoi vicoli sbattere di onde danno una sensazione di “pulito”, una sensazione strana trattandosi di Tarr.
E il suo stile, i piani sequenza? Quelli ci sono?
Oh sì, eccome! E sono sempre emozionanti grazie agli spostamenti della mdp per i quali sperimenta nuove inquadrature dall’alto molto suggestive. Manca IL piano sequenza da consegnare alla Storia, ma ne ho già detto.
Le musiche, invece?
Presenti con le fisarmoniche, ovviamente. Sono loro a dettare i tempi. Anche se a volte peccano d’invadenza, come dire… si sentono troppo spesso durante la durata, mentre in Werckmeister harmóniák (2000) i loro mirati e malinconici ingressi rompevano gli equilibri emotivi dello spettatore.
Lo staff, quello che lo accompagna praticamente dagli esordi c’è?
Sissignore. La moglie Ágnes Hranitzky da sempre presente durante la lavorazione si guadagna su IMDb il ruolo di co-regista. Immancabile lo scrittore ungherese László Krasznahorkai, fedele curatore di sceneggiature nonché autore del libro da cui fu tratto Satantango (1994). E last but not least, il grande Mihály Vig alle prese col comparto sonoro. Nessuna assenza da registrare.
Piuttosto, quella fatiscenza, elogio (o elegia) dell’essere decadente, di friabile disumanità, del fango della pioggia incessante degli elementi malevoli dello smarrimento perdizione dannazione disperazione, c’è? Ci sono?
No cazzo, non vi è quasi niente di tutto questo. E sarà riduttivo deprezzare un film perché non ha l’atmosfera dei suoi predecessori, ma unendolo al mero scioglimento dell’indagine si avverte che la chiusura della storia lascia dietro di sé qualcosa di aperto che ‘sta volta non è stato impresso sulla bobina. Né dentro di noi.
Aspettando The Turin Horse

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