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Si tratta del classico film destinato a dividere sia la critica sia il pubblico su posizioni piuttosto distanti. C’è infatti chi grida al capolavoro e chi esprime delusione rispetto alle aspettative e nel confronto con i film precedenti del regista.
Per quanto mi riguarda, non posso negare che si tratti di un film di altissimo livello cinematografico. E questo è vero innanzitutto per le superbe interpretazioni dei protagonisti, sia Joaquin Phoenix nei panni del reduce di guerra Freddie Quell, sia Philip Seymour Hoffman nei panni del guru Lancaster Dodd, sia Amy Adams nei panni della giovane moglie di quest’ultimo.
Lo stesso dicasi per la confezione del film che è di altissima qualità dal punto di vista visivo e sonoro. Del resto da Paul Thomas Anderson non ci si poteva aspettare di meno.
Ciò che personalmente ho trovato un po’ debole è l’impianto narrativo e una sceneggiatura a volte volutamente ambigua se non addirittura insensata. La memoria di alcuni dei precedenti film di Anderson, in particolare Magnolia e Il petroliere, è vivida e certamente si ravviva ulteriormente durante la visione di The master, dal momento che l’attenzione del regista torna a esplorare i rapporti umani in particolare quelli a due, e le complesse e talvolta inconsapevoli manipolazioni che inevitabilmente comportano.
Il rapporto tra Freddie e Lancaster (e di riflesso quello tra quest’ultimo e la moglie) è sfaccettato e difficilmente etichettabile. Lancaster è l’ispiratore di una setta che promette - attraverso metodi non convenzionali - il contatto con le proprie vite passate alla ricerca dei propri traumi e nel tentativo di superarli. Freddie ha una personalità disturbata in conseguenza della terribile esperienza della guerra e trova in Lancaster Dodd e nel suo mondo una prospettiva di riscatto. Lancaster a sua volta è – nonostante le apparenze – un personaggio fragile, vittima del proprio ego, incapace di gestire le critiche, profondamente solo e a sua volta in un rapporto di forza non ben definibile con il suo universo circostante, in particolare con sua moglie.
Il maestro, il dominatore della scena, il sommo manipolatore è facilmente identificabile sulla carta in Lancaster Dodd. Ma il film insinua numerosi dubbi in questa facile interpretazione. Il rapporto che si instaura tra Lancaster e Freddie è chiaramente di co-dipendenza; Freddie ha bisogno di Lancaster per sentirsi accettato e per questo si sottopone a tutti i suoi esperimenti, ma anche Lancaster ha bisogno della sudditanza e della riconoscenza di Freddie.
Non prestate attenzione a quelle recensioni che si concentrano sulla presunta ispirazione del film a Ron Hubbard, fondatore di Scientology e autore di Dianetics, perché è evidente che questo è per Anderson solo un pretesto per parlare di un rapporto esclusivo in cui due uomini – entrambi carnali, aggressivi, irrisolti, dipendenti – si guardano allo specchio e si riconoscono.
Questo è certamente il punto di forza del film, quello che mantiene alta l’attenzione per le circa due ore di durata dello stesso. Il contorno, però, spesso si sfilaccia, scivola nel vuoto, le parole si perdono nel loro stesso suono, i gesti si svuotano di significato.
Il ritratto è potente, ma un messaggio - se non chiaro almeno intuibile - non c’è, il senso sfugge. E questo può lasciare perplessi o addirittura disturbare.
Personalmente mi è mancata la catarsi che in altri film di Anderson gettava luce sull’insensatezza.
Voto: 3/5
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