Presentato al 32° Torino Film Festival, The Mend è un lungometraggio all'insegna del disordine che vuole raccontare la storia di un legame fraterno ricucito, o meglio, rammendato, come suggerisce il titolo. Un paradosso che salta immediatamente all'occhio, dato che costituisce la base del lavoro del regista John Magary, come lui stesso spiega: "Il motivo principale che mi ha spinto a fare questo film, anche quando lo stavamo scrivendo, è stato il desiderio di raccontare una storia mescolando i toni in modo casuale. [...] Non importa se una scena è triste e l'altra divertente, possono benissimo essere montate in successione, senza che il regista debba motivare la sua scelta. L'importante è accostarle e vedere cosa succede". Una scelta sicuramente apprezzabile da parte di tutti coloro che restano affascinati dalle atmosfere trasgressive di un certo tipo di cultura statunitense, dove il caos metropolitano penetra con facilità all'interno di appartamenti degradati, i cui inquilini vivono alla giornata rimescolando continuamente frustrazioni, istinti rabbiosi e crisi di impotenza.
Perché è questo, in sostanza, il nucleo tematico di un patchwork sicuramente variegato, soprattutto per il particolare utilizzo della colonna sonora, le cui musiche si incastrano attraverso tagli serrati che garantiscono alla narrazione un ritmo sostenuto e ben equilibrato; i momenti di più scura tensione emotiva non cadono mai nella drammaticità netta, ma sono sempre seguiti da una trasformazione di umori e comportamenti che ribaltano i termini della questione. Si può dire quindi che l'intento di Magary di sperimentare questa unione di piani differenti abbia avuto buon esito proprio nell'alternanza delle situazioni, pur essendo queste tutte racchiuse all'interno di una trama che non si discosta mai dall'essere la mera cronaca di un fallimento esistenziale a due voci.
Ed è questo l'elemento che, invece, disturba chi patisce le storie a sfondo fosco, non gradendo quindi le punte di ironia che possono trasparire da un tessuto che fin da subito si dispiega davanti agli occhi nella sua cupezza senza vie d'uscita. I fratelli Mat e Alan ci appaiono immediatamente come due esseri miseri e privi di soddisfazioni esistenziali, ognuno ha un rapporto amoroso turbolento da gestire, ognuno trova banali sfoghi nel sesso, nell'alcool, o semplicemente nello spingere al massimo la perdizione in un microcosmo fatto di sporcizia, orari scombinati, oggetti alla rinfusa, incapacità di comunicare realmente con la parte femminile, il tutto immerso in una densa apatia. L'aggiustamento che applicano al loro legame, una volta che si ritrovano a condividere lo stesso appartamento, si manifesta quindi in episodi di gretta bonarietà, tra incidenti domestici e bravate all'aria aperta; ma è un rapporto senza slanci costruttivi, che non crea mai grosse aspettative in chi osserva. Notevoli comunque le interpretazioni di Josh Lucas (Mat) e Stephen Plunkett (Alan), il primo, in particolare, molto acclamato da Magary come uno degli attori di punta del panorama statunitense, e forse ingiustamente sottovalutato, nonostante la lunga carriera alle spalle.