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the oregonian

Creato il 29 novembre 2011 da Albertogallo

THE OREGONIAN (Usa 2011)

tff

Questo film è stato presentato in anteprima per l’Italia al XXIX Torino Film Festival, nella sezione Festa mobile – Figure nel paesaggio.

the oregonian

Un film che porta con sé la macchia del non capirsi. Come si fa a entrare per tempo a uno spettacolo del TFF senza perdere il posto pur avendo il biglietto? Si arriva cinque minuti prima? Si fa la coda? Oppure si entra appena si arriva, anche venti minuti prima dello spettacolo? Quando si è da soli è semplice: si arriva con anticipo spropositato e il gioco è fatto. Quando si è in compagnia e ci si dà appuntamento al cinema, be’, bisogna essere altrettanto lungimiranti, ma purtroppo il più delle volte questo non è possibile. E così c’è mancato poco che mi perdessi anche questo spettacolo, che era invece un regalo che mi facevo, un innamoramento a prima vista. La locandina del film, infatti, consiste in un fumetto di Kermit La Rana insanguinato e malconcio. Ed ecco cosa riporta il programma del TFF a riguardo:

Horror indipendente strambo e imprevedibile, inquietante, spiazzante. Come se S. F. Brownrigg (Non guardare in cantina) avesse diretto un film di David Lynch.

Con presupposti del genere non avrei mai potuto resistere: dovevo vedere The Oregonian a tutti i costi, sentivo di esserne terribilmente attratto – pur non conoscendo S. F. Brownrigg! Prima di parlarvene, tuttavia, vorrei riportare anche il commento del regista, molto appropriato:

Una volta ho sognato che mi trovavo in un bosco sotto una pioggia torrenziale e ridevo di quella situazione. Il giorno successivo ho iniziato a scrivere un film su una ragazza che, nella stessa condizione, vive uno dei momenti peggiori della sua esistenza. Non ho da proporre una grande teoria al riguardo e non credo neanche che i sogni posseggano un significato recondito, ma per me c’è qualcosa di sacro nel processo attraverso cui l’inconscio elabora una storia così folle e astratta da non poter neanche essere espressa verbalmente in modo coerente. Ho girato questo film perché mi interessava indagare l’ignoto e non è possibile dire se l’abbia fatto correttamente.

Questo svela già più di un mistero riguardo a questo film così incredibilmente surreale da sorprendere in maniera sempre diversa, scena dopo scena, lo spettatore, a tal punto che il pubblico stesso del TFF si è diviso tra chi ha riso di scherno, chi è rimasto molto serio e chi invece (trattandosi pur sempre di un horror) si è spaventato per ogni momento di tensione. Io ho cercato di mantenere il più possibile un equilibrio fra simili umori, per quanto mi fosse chiaro sin da subito che questo era il film per me, e pertanto fosse ancor più difficile mantenere un giudizio lucido ed equilibrato. Ragion per cui non starò a dire se il film è bello oppure no.

Ebbene: una ragazza abbandona il ranch del proprio fidanzato ubriacone e disperato dopo avergli rubato il portafoglio e la boccetta di gin. Nella sequenza successiva si risveglia in macchina, con la fronte sanguinante appoggiata al cruscotto. Cos’è successo? Non ricorda. Da qui inizia un viaggio spirituale pieno di visioni senza capo né coda, attraverso un’America che potrebbe ben rappresentare il rovescio della medaglia di quella vista in Into the Abyss, il documentario di Werner Herzog sulla pena di morte. Lì si vedeva un’America concreta, osservata sul piano socio-culturale, in qualche modo descritta fedelmente e senza commenti. Qui si vede invece un’America allucinata, abbandonata, in preda alla follia e alla solitudine, alla depressione e al degrado. La protagonista si muove dentro boschi silenziosi e minacciosi, città fantasma traboccanti oggetti di consumo di ogni sorta, silenziosi, pericolanti, kitsch. Il suo è un percorso iniziatico che vacilla tra il male e il bene, rappresentati rispettivamente da una terrificante anziana signora vestita di rosso e da un giovane nerd occhialuto, grasso e tabagista. Fedele compagno di viaggio e “doppio” onirico della ragazza, un pupazzone verde a grandezza umana che a Kermit potrebbe anche assomigliare, non fosse che il tessuto è lacero, un occhio gli penzola malamente da una cucitura, la bocca è tutta slabbrata e quando cammina si trascina malamente.
Cosa si nasconde dietro questo ennesimo allucinato travestimento?
Le chiavi di lettura sono molteplici, e coinvolgono anche l’aspetto tecnico e il gusto citazionista. La pellicola è girata come se fosse un b-movie, i campi e controcampi nei dialoghi sono montati in una maniera abbozzata che ricorda a volte le telenovelas di terza categoria. Gli effetti speciali sono tutti analogici. In generale, anche a livello di recitazione, si respira una certa ingenuità che però è componente intrinseca della pellicola e ispessisce i bizzarri personaggi che infestano il mondo della coscienza di questa novella Alice americana e senza nome (è lei la “Oregonian”, come indicano i titoli di coda). Personaggi, tutti, di un’America decaduta, cinica, indisciplinata, malata e disperata che ricordano molto un certo tipo di songwriting che vede in Beck il suo massimo esponente (molti gli hipster presenti in sala). Il senso di colpa vissuto attraverso i simboli e il disgusto di una cultura che lascia i suoi figli periferici in uno stato di solitudine e di ignoranza senza ritorno.

Un film per certi versi spietato, per altri invece molto ironico e molto conciliante nei confronti del pubblico, almeno quello del TFF, che ne ha saputo apprezzarne con entusiasmo l’estetica e una più che voluta (e forse solo apparente) sconclusionatezza. Figlio minore di David Lynch (ma il maestro è un’altra cosa), Calvin Lee Reeder è già un mio amico, non fosse altro per essersi cimentato in un tipo di racconto che pochi hanno il coraggio di affrontare e ancora meno riescono a prendere in pugno senza perdersi. E pur con qualche eccesso, ingenuità o confusione, il risultato è coinvolgente, terrificante, surreale. È possibile che questa pellicola non tornerà mai più sui nostri schermi. Ma chissà, forse qualche mente illuminata ci vorrà scommettere su qualche spicciolo. Io me lo auguro. Non un capolavoro, forse neanche un “bel film”, ma pur sempre una pellicola che sa farsi amare.

Francesco Rigoni



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