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La vita di un poliziotto delle forze antiterrorismo israeliane è scandita da rituali che appartengono a un quotidiano che non conosce nazionalità: la complicità amicale verso i colleghi che condividono i suoi stessi rischi si alterna con quella della moglie che lo aspetta a casa, ansiosa di rivederlo nelle stesse condizioni in cui è uscito. Apparentemente vitale, il film procede in due direzione: la prima ci mostra uomini fisicamente ineccepibili e professionalmente capaci, che vivono muovono e combattono con in mente un unico obiettivo che è quello di catturare il nemico arabo; la seconda invece si prende cura di confutare quelle certezze con variazioni sul tema che, se non mettono in discussione l’apparato statale e burocratico nel quale si inserisce l’operato degli agenti, di certo lo mina a livello individuale, per la scoperta di una realtà che non corrisponde a quella dedotta dai briefing e dalle strategie che precedono la repressione armata.
Increspature di una superficie perfettamente levigata, queste asimmetrie costituiscono in chiave drammaturgia il valore dell’intera opera: il collega malato di tumore che si ostina a lavorare trasmettendo agli amici la sensazione di un invincibilità relativa, i dati di un operazione andata storta, con la morte di persone innocenti a relativizzare il mito della guerra chirurgica, e poi ancora il machismo di Yaron, marito premuroso di una moglie incinta ma allo stesso tempo capace di portarsi a letto una cameriera minorenne, ed infine la scoperta più sconvolgente, rappresentata da un terrorismo autoctono, nato nelle risacche di una nazione abituata a difendersi dall’esterno e per questa poco abituata a fare i conti con il dissenso interno.
Due facce della stessa medaglia, gli agenti governativi ed il gruppo terroristico che Nadav Lapid ci presenta in modo secco, senza introduzione, precipitando lo spettatore all’interno di due mondi differenti, ma costretti a convivere nel medesimo scenario. La tradizione va di pari passo con nuove forme di dissenso: da una parte l’ordine e la conservazione, dall’altra il rigurgito di una vita disumana. Compartimentazione che il regista traduce sul piano filmico con una narrazione parallela, destinata ad incrociarsi solamente nel finale, quando la resa dei conti tra buoni e cattivi porterà ad ulteriori sorprese, e che per il resto procede in maniera indipendente.
L’uso di luci naturali, l’assenza di qualsiasi virtuosismo tecnico ed un cast funzionale alla storia contribuiscono a rendere il film fruibile ed allo stesso tempo impegnato. Di questi tempi una rarità. Presentato in prima mondiale al festival di Locarno del 2012, il film ha vinto il premio speciale della giuria, facendo di Lapid uno dei registi più interessanti dell'ultimo periodo.
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