Anno: 2012
Durata: 92′
Distribuzione: M2 pictures
Genere: Horror
Nazionalità: USA
Regia: Ole Bornedal
Data di uscita: 18 ottobre 2012
La tematica della possessione demoniaca continua ad incuriosire e ad interessare molte persone appartenenti a differenti credo religiosi, correnti filosofo/psicoanalitiche e, naturalmente, autori cinematografici. La visione tradotta sul grande schermo di tali spaventosi eventi è affidata al regista danese Ole Bornedal (che ricordiamo per il suo Nattevagten, che venne sottoposto al self-remake nel 1997 con il titolo Il guardiano di notte – Nightwatch), sotto una supervisione d’eccezione come quella del maestro dell’Horror internazionale Sam Raimi e della sua casa di produzione e distribuzione Ghost House.
La vita è un pendolo che oscilla tra la paura e il desiderio: due elementi collegati a doppio filo, dipendenti inevitabilmente l’uno dall’altro. Questa frase sarebbe potuta funzionare per attirare onestamente la giusta fascia di spettatori, quantomeno per diversificarsi un minimo dalle solite proposte mainstream. Ma, a quanto pare, la strategia della frase “ispirato a una storia vera” esercita più fascino sulle nuove generazioni cinefile. Cosa succede, dunque? Non è più concesso lasciarsi andare a un’ora e mezza di racconto fantastico, fatto di mostri e fantasmi che non abbia appigli e riscontri nella realtà? Ci si spaventa esclusivamente se l’orrore viene a disturbare e irrompe senza preavviso nelle nostre vite reali? Il fatto è che, anche che in quella che noi chiamiamo realtà, è impossibile tenere tutto sotto controllo. Se qualcosa o qualcuno ci spaventa è giusto che sia così ed è illusorio anche solo starsene su una poltrona a guardare con apparente distacco quello che sta per succedere. Una storia semplice come questa affrontata da The Possession, senza particolari guizzi geniali ma tecnicamente impeccabile, è la dimostrazione di come si possa ancora godere di un sano momento di paura su celluloide non privo di validi contenuti.
Al centro, una famiglia non perfetta: genitori divorziati con a carico due giovani figlie. La più piccola, Em (interpretata da una promettente Natasha Calis) diviene accidentalmente proprietaria di un’antica scatola di legno dal contenuto ignoto. Ne entra in possesso, affezionandocisi, come se, in essa, avesse trovato il completamento di qualcosa che mancava nella sua vita. Un buco affettivo, forse, un punto di riferimento che non avrebbe potuto indirizzare verso la sua famiglia disunita, una semplice compagnia nei giorni di solitudine, un desiderio di sentirsi unica e speciale. La scatola, che ben presto si rivelerà “vivente” , era già stata ospite all’insaputa dell’innocente bambina, di molte altre case americane nelle quali aveva portato disgrazie e sofferenze di diversa natura. Il suo contenuto è il vero (s)oggetto inquietante.
Nessuna combinazione particolare o cenobiti in agguato pronti a trascinarti nel più profondo abisso di disperazione come fu per l’Hellraiser di Clive Barker, ma uno spirito (femminile, in questo caso) chiamato Dibbuk : tormentato, irredento, appartenuto a un involucro terreno non identificato seppur attribuito a un’arcaica storia di maledizioni incatenate al folklore ebraico. Le trasformazioni che avvengono nel corpo e nei comportamenti di Em sono crudeli, vendicative, violente, tipiche di una possessione demoniaca. Nere falene, presagio di morte, invadono gli ambienti circostanti come precursori di un terribile incubo ad occhi aperti. Lo spirito malvagio ha finalmente scelto la forma ideale in cui materializzarsi, ovvero la purezza di Em. Oramai ogni dubbio è dissipato: nessun parente né medico può salvare la bambina, ma soltanto un esorcismo. Non sarà facile per il padre della giovane ragazza (un convincente e molto naturale Jeffrey Dean Morgan, visto di recente negli eccentrici panni de Il comico sul Watchmen di Moore/Snyder) accettare questa intromissione paranormale nella vita della piccola e poi contattare Tzadok (impersonificato, a sorpresa, non da un attore professionista bensì dal cantautore Matisyahu, famoso per il suo singolare sound che fonde il raggae, il rap e la beatbox ai temi della cultura della Torah) il figlio di un vecchio rabbino che deciderà di afferrare il coraggio a quattro mani per aiutarlo.
Molti i rimandi a mitici film del passato, come L’esorcista (niente a che vedere, intendiamoci, col capolavoro di William Friedkin, ma la scena della visita alla clinica psichiatrica e una particolare prospettiva sotto la luce di un lampione lo ricorda vagamente) o a Suspiria di Dario Argento (nella scena della corsa di notte di Em o nell’incontro di suo padre con un professore universitario di antropologia che gli rivelerà l’origine della scatola come fece Rudolf Schündler con Jessica Harper nel momento in cui viene razionalizzata l’inspiegabilità di macabri eventi con l’effettiva esistenza delle streghe).
La regia e la sceneggiatura non sembra essere stata suggerita dal produttore, infatti non c’è traccia dell’ironia nera e tagliente di Raimi, a parte in un piccolo colpo di tosse finale che strappa un sorriso canzonatorio. Le inquadrature sono giocate per lo più sui primissimi piani e sullo sguardo degli attori e sapiente la scelta del trucco e degli effetti speciali amalgamati ai differenti tagli di luce, ombre e suggestioni ricreate appositamente nei dettagli scenografici.
Buona la colonna sonora realizzata da Anton Sanko, che alterna minimali composizioni pianistiche simili a nenie infantili e affonda con veemenza ed insistenza, sempre sullo stesso pianoforte, le dita su stessi, singoli tasti facendo crescere con tale ridondanza di note la suspense richiesta alle scene più impressionanti, prediligendo le ottave più basse. Da menzionare anche Engel, il brano contenuto nel trailer, in origine composto dal gruppo tedesco Rammstein e qui eseguito dal coro belga Scala & Kolacny Brothers
Diciamo pure che non abbiamo bisogno di promesse fittizie che ci inducano ad entrare in sala e scegliere un film piuttosto che un altro solo perchè l’ L.A. Times o qualsiasi altra testata giornalistica inneggia alla moda del sensazionalismo legato a tetre leggende metropolitane. Quello che conta è la qualità, è il nostro gusto e istinto nel saper distinguere il buon Cinema da quello mero e commerciale. E questa capacità di distinzione e scelta la si può ottenere soltanto ragionando e sognando con la propria testa e il proprio cuore.
Giovanna Ferrigno
Scritto da www.taxidrivers.it il ott 26 2012. Registrato sotto IN SALA. Puoi seguire la discussione attraverso RSS 2.0. Puoi lasciare un commento o seguire la discussione