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Sebbene la finzione filmica si premuri di affermare fin dal primo fotogramma che la storia narrata da Mohsem Makhmalbaf, regista iraniano in esilio da dieci anni, è ambientata in un paese sconosciuto, allo spettatore d'oggi verranno alla mente fin troppi luoghi in cui essa potrebbe aver avuto luogo. "The President" narra la parabola di successo, caduta e (forse) redenzione di uno spietato dittatore che un giorno, a seguito di un colpo di stato, cade in disgrazia ed è costretto a fuggire assieme al nipotino dall'odio dei suoi sudditi, divenuti ora i suoi aguzzini.
Il dittatore, chiamato "Sua Maestà" persino dai membri della famiglia, vede riversare contro di sé l'odio con cui ha trattato il suo popolo.
Le parti si invertono: il sadismo, il cinismo e la brutalità con cui per anni ha regnato, vengono usati contro di lui da genti esauste, incapaci ormai di conoscere altra legge che non sia quella della vendetta e dell'odio. La ragione ha abbandonato la mente di ogni persona che egli incontra lungo la sua fuga; i militari che prima lo proteggevano ora gli danno la caccia, la sua famiglia lo abbandona, mentre i contadini che un tempo tenevano appesa in casa la sua fotografia, ora ne inneggiano la morte, speranzosi di poter riscuotere la taglia posta sulla sua testa. Il film, girato in Georgia, spicca per una scenografia parlante, in cui il paesaggio, roccioso e austero, amplifica le efferatezze cui il protagonista assiste lungo la fuga: sfruttamento minorile, violenze, stupri, torture, realtà che l'uomo tenterà di spiegare al nipotino fingendo che tutto quello scenario di guerra non sia altro che lo sfondo falso di una pantomima.Certo questa messinscena richiama l'intelaiatura di "La vita è bella", con la piccola differenza che mentre in questo caso i due si limitavano a fuggire dal male senza averlo minimamente causato, in "The President" il dittatore è vittima e artefice della sua stessa ignobile fine.
Mentre i primi minuti del film ritraggono la famiglia reale nella sontuosa e scintillante reggia da cui viene presa ogni decisione riguardante il destino di un'intera nazione, man mano che la vicenda avanza la caduta viene enfatizzata anche da colori sempre più cupi e tetri, in sintonia con l'ambiente petroso in cui nonno e nipote si trovano, piccoli e miserabili come qualsiasi altro uomo in fuga dalla guerra civile.
In questo senso emblematica è la trasformazione fisica cui il protagonista andrà soggetto, prima fiero nei suoi panni regali, poi curvo e sofferente, simile a un qualsiasi barbone coi capelli lunghi e la barba incolta, il viso segnato dalla sofferenza. Se inizialmente il personaggio del protagonista non suscita in noi alcuna empatia, in un secondo momento diviene ai nostri occhi più umano, quasi fosse un nonno qualsiasi che cerca di difendere il nipote dagli orrori della guerra. In ogni momento della turbolenta vicenda,il presidente protegge disperatamente il bambino, forse proiezione del suo infantilismo e dell'amore per lo status privilegiato di cui godeva, tutelandolo dalla crudele realtà.
Nonostante questi accenni impressionistici siano sufficienti a delineare efficacemente la psiche del protagonista, pare che lo scopo di Makhmalbaf sia stato quello di portare lo spettatore a riflettere su un tema tanto caro alla politica d'oggi e di ieri, se cioè la coazione e la reiterazione della violenza ai danni del vecchio oppressore possano davvero essere le fondamenta di uno Stato pacifico.
Puo la democrazia nascere da un gesto violento?
Dalla tragedia greca passando per Shakespeare, quello della vendetta è un tema assai caro alla tradizione occidentale e, ahimè, attuale: la scena finale in cui il popolo trova il dittatore è certamente memore dell'impiccagione di Saddam Hussein. Al contrario, con raffinatezza ed eleganza il regista è in grado di ricreare un mondo di violenze e barbarie mantenendo sempre alta la pudicizia delle immagini, che non descrivono volgarmente ma permettono piuttosto che sia lo spettatore ad immaginare.
Erica Belluzzi
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