- Anno: 2015
- Durata: 103'
- Distribuzione: Videa - CDE
- Genere: Biografico
- Nazionalita: Gran Bretagna
- Regia: Stephen Frears
- Data di uscita: 08-October-2015
Sinossi: Ascesa e caduta di uno dei miti sportivi più celebri e celebrati di sempre. Tra il 1999 e il 2006 Lance Armstrong vince sette Tour de France consecutivi, record tuttora imbattuto nella storia della corsa francese. Contemporaneamente diventa uno dei più importanti testimonial della ricerca contro il cancro, malattia da lui sconfitta in prima persona giusto un attimo prima di iniziare a vincere tutto. Non tutti però credono alla favola di questo ciclista rinato dalle sue stesse ceneri. Il giornalista inglese David Walsh, ad esempio, comincia ben presto a interrogarsi sui possibili legami tra Armstrong e il dilagante fenomeno del doping. All’inizio si scontra con un muro di silenzio ma, pian piano che la verità inizia ad affiorare, ciò che il cronista si ritrova per le mani è la storia di una delle più grandi truffe sportive della storia.
Recensione: Ci sono ben pochi dubbi che Stephen Frears, dall’alto dei suoi 74 anni, sia uno dei registi più versatili in circolazione. Perfettamente a suo agio sia che si tratti di svelare i retroscena della Corona inglese in The Queen che di tradurre in immagini romanzi tra di loro agli antipodi – si va da Le relazioni pericolose di Choderlos de Laclos ad Alta fedeltà di Nick Hornby, passando per l’eccezionale Rischiose abitudini di Jim Thompson – il regista inglese ha sempre rifiutato in toto l’idea di uno stile che ne connoti l’opera in maniera forte, preferendo invece affrontare ogni film con spirito vergine, attitudine assai rara per un uomo di cinema con più di quarant’anni di attività alle spalle. Più o meno lo stesso approccio “giovane” che lo porta a fare la spola tra una sponda e l’altra dell’Oceano a seconda dei progetti che, di volta in volta, lo vedono coinvolto.
Essendo anche artista assai incline alle sfide, dopo il successo di Philomena Frears deve aver sentito la necessità di non adagiarsi sugli allori e correre un nuovo rischio con il biopic di uno degli atleti più contraddittori e discussi del nostro secolo. La materia era ghiotta perché le vicissitudini legali che hanno portato Armstrong a perdere sia la credibilità che tutti i trofei vinti in carriera permettevano la costruzione di una storia in cui le ombre surclassassero di gran lunga le luci.
Fortuna vuole che, a sostenere il regista in questa sfida, ci sia il notevole script di John Hodges, collaboratore abituale di Danny Boyle. Non poteva esserci infatti scelta migliore per raccontare una parabola fondata essenzialmente sull’inadeguatezza del corpo e sulla propensione ad iniettarsi sostanze per via endovenosa dell’autore di Trainspotting. Hodge è evidentemente poco interessato al ciclismo o ai meriti sportivi di Lance Armstrong – che del resto nel film vengono molto ridimensionati – che si limita a vedere come una sorta di tossico di lusso, sostanzialmente un cugino ricco dei quattro eroinomani del film di Boyle. Ciò che differenzia i due contesti semmai è la presenza, nel caso del ciclista americano, di uno scopo. Laddove infatti Renton e Sick Boy sviluppavano la loro dipendenza per pura pigrizia o per paura di mettersi alla prova, Armstrong è mosso al contrario da un’ambizione spropositata, pari solo alla sua consapevolezza di non avere i mezzi naturali per assecondarla. Il film è tutto qui, nello sguardo allucinato di Ben Foster (il suo livello di immedesimazione, anche fisica, con il ciclista è impressionante) e nell’enorme quantità di aghi che, tra flebo e iniezioni di EPO, riesce a infilarsi in vena. E soprattutto nella scelta di non mostrare mai Lance Armstrong come una vittima inconsapevole degli eventi, bensì come perfettamente a proprio agio all’interno di un sistema criminoso, organizzato di fatto come un’associazione mafiosa. Prova ne siano le palesi forme di mobbing verso qualsiasi ciclista rifiutasse di attenersi ai rigidi standard di dopaggio imposti dal mefistofelico dottor Michele Ferrari (interpretato da Guillame Canet) o, cosa ancora più importante, minacciasse di denunciarli.
In tal modo The Program crea un livello altissimo di complicità con lo spettatore che è perfettamente conscio, in ogni momento del film, delle oggettive responsabilità del protagonista, senza mai correre il rischio di santificarlo prima che la sua parabola imbocchi l’inevitabile fase discendente.
Se da un lato questa struttura è suscettibile di raffreddare il materiale narrativo spiegando tutto e subito, ne rappresenta, dall’altro, il vero valore aggiunto, che contribuisce ad allontanare il film dalla classica biografia di un personaggio noto per farne, invece qualcosa di più complesso: una vera e propria epopea criminale che più che a Rush (giusto per considerare un notevolissimo esempio recente di film a tema sportivo) sembra guardare idealmente a Scorsese e ai suoi Bravi ragazzi.
La scelta di Stephen Frears come regista, in quest’ottica, è perfetta. Il suo sobrio profilo stilistico asseconda infatti le pieghe di un racconto dall’andamento tortuoso, così pieno di ripide salite e cadute improvvise da risultare simile a quelle tappe del Tour che, volutamente, sceglie di mostrare il meno possibile. Quasi a suggerire come la storia di Lance Armstrong verrà ricordata più per il suo triste epilogo giudiziario che non per i tanti e non meritati trofei.
Fabio Giusti