Una storia su Lance Armstrong il cinema era destinato a raccontarla, se non fosse stata quella del più grande scandalo di doping intercettato nel ciclismo, sarebbe stata quella del più grande ciclista di tutti i tempi, sette volte campione del Tour de France.
Persone come lui, del resto, sono inclini a questo genere di traguardi: disposti a sacrificare sé stessi pur di affermarsi come migliori nella loro professione.
La pensa così anche "The Program", che apre i battenti parlando di voglia, di fame e di cuore, con un Armstrong ancora agli albori della sua carriera e consapevole di non avere il fisico preparato e propenso per conquistare l'obiettivo principe cui ambisce. Nelle sue parole, sincere, traspare già quella determinazione che non lo fermerà per nessun motivo al mondo, la stessa con cui, più avanti, affronterà il cancro e deciderà di truffare milioni e milioni di persone - sé stesso compreso - alterando il suo corpo e scrivendo, seppur temporaneamente, una delle favole più belle che lo sport e il mondo potessero raccontare. Perché, paradossalmente, sono proprio quella voglia, quella fame e quel cuore i reali colpevoli che nella loro pura concezione, possono spingere ad imbrogliare e ad andare contro qualsiasi norma o regolamento, sfidando, a petto infuori, la nostra natura, il nostro percorso e la boria di quelle persone che ci davano per scontato o, peggio ancora, per sconfitti.
Il primo passo di Stephen Frears quindi è quello di portarci allo stesso livello del suo protagonista, di farci sentire umanamente simili a lui, abbassando all'istante l'odio nei suoi confronti e il disprezzo per il suo comportamento scorretto, consapevole che, al contrario, nulla potrà fare, per quanto riguarda il neo dell'arroganza che lo contraddistingue, sua delizia esattamente come sua croce. Non è un biopic però la sua pellicola, che si accontenta di fornire i contorni imprescindibili di Armstrong e i riempimenti utili a poterlo inquadrare e, nel bene e nel male, capire, in quelle azioni che lui giustifica come doverose per salvaguardare una disciplina, precedentemente snobbata e di poco interesse.
Siamo stati noi a creare il mostro oppure è stato il mostro a creare noi?
E' una domanda che sorge spontanea, ma alla quale Frears non se la sente di dare una risposta secca e definitiva. La sua pellicola preferisce limitarsi a raccontare quello che è stato uno dei spaccati più importanti della storia ciclistica, partendo, appunto, dall'elemento pilota, nonché autore, scudo e spacciatore di frode, ma anche paladino, eroe ed esempio solido per la gente comune. Il mito di Armstrong, non a caso, era diventato scomodissimo da far cadere, poiché rappresentava l'immagine di umiltà e coraggio che, nella sua costruzione, forniva forza e speranza a chi, come lui, nella vita aveva sofferto o lo stava facendo. Ad un certo punto la sua fama non era più vincolata solo ai suoi traguardi sportivi, ma sconfinava in qualcosa di maggiormente ampio che andare a rimuovere poteva comportare spiacevoli conseguenze.
E' evidente che a "The Program" interessa più tutto questo che il resto, discorsi sul ciclismo compresi. Lo stile finto-documentaristico con cui si srotola allo spettatore è infatti puramente bilanciato e conforme alle notizie e alle dichiarazioni raccolte da David Walsh: il giornalista interpretato da Chris O'Dowd, autore del libro da cui il film prende spunto. Romanza al minimo qualsiasi situazione, Frears, non ha alcun bisogno di montare artifici, chiedendo massima applicazione persino a Ben Foster, il quale pare scomparire dietro il suo personaggio, aderendo fino in fondo alla responsabilità assegnatagli e dimostrandosi ottimo attore, a tratti incredibilmente camaleontico.
Ha l'aspirazione di esistere per documentare una pagina spiacevole di Storia sportiva, "The Program" ma ancora di più per tessere quei legami strettissimi che legano la sua venuta con il deficit di gloria che risiede nell'animo di ogni essere umano. Chi più, chi meno.
Pur non esente da qualche difetto, specie nella sua parte iniziale, tirata un po' via rapidamente (per giungere forse al succo più amaro della questione), quello di Frears perciò viene assorbito come un lavoro curato ed onesto che non vuole schierarsi né a difesa, né in attacco di nessuno. Ma al massimo giustificare e suscitare domande.
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