Film passato quasi in sordina, tratto da un romanzo di Cormac McCarthy, con Viggo Mortensen, Kodi Smit-McPhee e una breve apparizione di quella superbellezza neoquarantenne che è Charlize Theron.
In una realtà distopica nemmeno troppo improbabile, qualcosa di indefinito ha portato il pianeta Terra (e l’America) alla devastazione, con cumuli di macerie sparsi ovunque e poco di cui vivere. Elettricità, acqua e gas sono inattivi da chissà quanto tempo, gli alberi cadono secchi e pesanti a terra e il sottosuolo ribolle causando continui terremoti di assestamento.
In questa immensa desolazione girovagano da tempo non definibile un padre e un figlio in cerca di cibo e acqua, deperiti e spaventati, con solo uno zaino sulle spalle e un carrello che trascinano lungo le strade deserte colmo di roba raccattata in giro.
Sulla terra vivono anche altri individui, per la maggioranza violenti e pericolosi, dediti al saccheggio e al furto più sfrenati, anche se la propensione più spaventosa è un’altra: il cannibalismo.
Decine di individui sporchi, sudici e affamati girano per il territorio in cerca di uomini disperati da uccidere e divorare. Padre e figlio cercano con ogni mezzo di evitare di morire di fame o di cannibalismo spostandosi costantemente verso la costa sud del paese.
Un film poco conosciuto ma di indubbio interesse, dove non si approfondisce il già fin troppo trattato duello fra l’uomo e la natura ma si indaga il rapporto di resistenza dell’uomo di fronte alla totale mancanza di speranze e possibilità con l’unico obiettivo di sopravvivere.
Il cannibalismo viene solo percepito, immaginato, mai visto direttamente. Come spettatori, assistiamo ad agghiaccianti episodi nei quali un solo elemento riesce a far comprendere cosa si nasconda dietro al comportamento inquietante di quegli individui lordi e disumanizzati che avanzano con asce a bastoni: è però sufficiente a trasmetterci un profondo senso di empatia nei confronti di padre e figlio e dei loro tentativi di sopravvivenza.
La terribile scena della villa abbandonata è l’esempio perfetto del mai visto che diviene immaginato angosciante: il padre e il figlio entrano in una grande villa alla ricerca di viveri e coperte, credendo sia abbandonata. Sentendo dei rumori provenire da una botola posta sul pavimento, aprono e si ritrovano una decina di vittime designate dai cannibali, alcune già orribilmente ferite. I cannibali si avvicinano, il padre trascina il figlio nel bagno al primo piano dell’abitazione e ovunque si colgono segnali nauseanti, pezze sporche di sangue su lavandini colmi di quello stesso liquido ormai rappreso. I due riescono a fuggire, odendo i discorsi tranquilli e quotidiani di quel gruppo di reietti.
Mentre attendono il calar della notte, il padre copre le orecchie del figlio: rumori di coltelli e grida di terrore provengono dall’orribile villa trasformata in mattatoio. Nulla di più si vede, ma è già sufficiente per avere lo stomaco sottosopra.
Padre e figlio vivono un rapporto di appoggio reciproco, per quanto materialmente la maggior parte delle azioni siano svolte dal padre, che si illude così di mostrare al figlio come sopravvivere una volta che lui sarà morto. È un convincimento testardo, quello del padre, che si augura di risparmiargli una morte orrenda insegnandogli a spararsi in testa se le cose si mettono davvero male, che spera di raccogliere più coperte possibile per proteggerlo dal freddo e che nasconde le proprie gravi condizioni di salute per alimentare ancora il sogno di poterlo proteggere in eterno evitandogli il confronto anticipato con l’orrore. Un’operazione destinata a fallire.
Il bambino, per il padre, è una sorta di divinità. Un vecchio saggio incontrato nei boschi lo scoraggia dal credere di camminare accanto all’ultima divinità incarnata, per il pericolo dato dalla speranza vana che questa illusione potrebbe portare e soprattutto perché una divinità avrebbe innumerevoli questioni da spiegare. Il padre vive di questa idea perché lo porta avanti, quando ha tagliato i ponti con qualsiasi altro elemento del passato, perfino la moglie.
Moglie splendida, bionda e affascinante, che non ha resistito all’idea di non poter avere più un vero futuro e si è lasciata morire nei boschi freddi attorno alla casa in cui viveva la famigliola. «La freddezza è stata il suo ultimo regalo», come dice il padre/voce narrante mentre ricorda gli ultimi istanti in cui ha potuto guardare la moglie negli occhi.
Una donna che non può sopportare l’idea di dare alla luce un bambino in un mondo senza futuro e che vorrebbe portarselo via, se il marito non glielo impedisse categoricamente. Per lui il bambino è vita, ragione di sopravvivenza e d’amore. L’ultimo tassello di una vita distrutta.
Viggo Mortensen dovrebbe essere una delle ragioni per vedere questo film: credibile, totalmente immerso nel ruolo e fisicamente provato, non cliché dell’uomo-macho ma credibile umano troppo umano che tenta di mantenere il figlio in salute per permettergli di vivere un futuro improbabile ma in cui lui ancora auspica.
Charlize Theron dura per manco mezz’ora in tutto il film ma riesce ugualmente a dar prova della sua straordinaria bravura recitativa nel ruolo di una donna in fondo forte e consapevole che preferisce l’oblio al contatto con la realtà inenarrabile nella quale si trova.
Nel cast anche Robert Duvall e Guy Pearce, il primo un anziano solitario che i due protagonisti incrociano per strada, il secondo un veterano che si rivelerà di vitale importanza per il bambino.
La fotografia è cupa e non si va oltre i toni del grigio, in un’atmosfera che pare sospesa fra due spazi temporali. Segue alla buona fotografia anche un lavoro sulle scenografie molto accurato e una scelta azzeccata delle location, prevalentemente boschive.
Pur essendo intriso di un tipico buonismo all’americana sul finire, The road si rivela un prodotto coinvolgente e credibile. Una fortuna, trattandosi di un film su un mondo post-apocalittico.