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La trama (con parole mie): Paul Kemp, sregolato giornalista appena giunto nella Porto Rico nei primi anni sessanta, trova lavoro presso il quotidiano che gli Usa controllano nell'ottica dell'assetto politico del periodo, reso instabile dalle tensioni tra gli Usa e il blocco sovietico.Stretta amicizia con gli scombinati colleghi Sala e Moberg, tra un rum ed una scorribanda in macchina, l'uomo ha giusto il tempo di trovare un canale che potrebbe portarlo alla sicurezza e al denaro per poi bruciarlo prendendosi una cotta da antologia per la donna di Sanderson, eminenza grigia dell'isola le cui influenze si fanno sentire a tutti i livelli: la lotta per il suo cuore e per la libertà di stampa locale faranno da stimoli alla carriera futura del giornalista, pronto per la prima volta nella sua vita a tracciare la rotta della sua professionalità - e non solo -.
A volte capita che un film senza particolari pretese, tendenzialmente patinato, con un cast che gioca sull'ordinaria amministrazione ed una regia senza alcun picco, tratto come se non bastasse da un romanzo di un autore cult eppure privo di una sceneggiatura che possa dare anche un minimo di mordente alla storia riesca a conquistare senza, di fatto, averne alcun merito.E' il caso di The rum diary, promosso e distribuito come una versione vintage di Paura e delirio a Las Vegas - l'autore dei romanzi è lo stesso, il mitico Hunter S. Thompson -, lontano anni luce dalla potenza di quello che vorrebbero venderci come il suo predecessore, eppure in grado di incollarmi allo schermo con lo stesso piacere che mi pervade quando vedo e rivedo fino allo sfinimento pellicole che sono considerate cult in casa Ford, pur non facendo leva su una vicenda particolarmente avvincente o ben scritta.Non so se sia stata la crescente passione del protagonista per Amber Heard, l'ambientazione caraibica, il rum o la tendenza dei giornalisti portati sullo schermo da Depp, Michael Rispoli e Giovanni Ribisi di perdersi dentro e fuori se stessi come solo chi conosce bene l'alcool sa e può fare, o il fascino di un'epoca in cui la lotta poteva essere vissuta come un viaggio o un'esperienza, ma non ho avuto un solo istante di cedimento dall'inizio alla fine, e pur non sentendomi particolarmente coinvolto, mi sono lasciato cullare da una pellicola senza particolari pretese - del resto, Bruce Robinson resta un signor nessuno - capace comunque di trasportarmi nel pieno del periodo che fotografa, accarezzandomi con quel gusto per la siesta ed il tempo rubato al normale e quotidiano incedere dello stesso tipico del concetto di Sud che tanto mi attrae.A rendere il tutto un cocktail ancora più piacevole da mandare giù sorso dopo sorso il confronto tra Kemp ed i suoi due antagonisti, lo scorbutico scribacchino e direttore del giornale Lotterman - un ottimo Richard Jenkins che impersona alla grande il tipico esecutore servo del potere dalle nevrosi pronunciate - e l'odioso arricchito Sanderson - un sempre efficace Aaron Eckhart -, uomo dallo stile madmeniano e dai modi spocchiosi di chi pensa che il denaro ed il potere rendano, di fatto, una persona migliore di tutte le altre: la scombinata gang formata da Depp e i suoi, di contro, si porta sulle spalle tutto lo scoordinato panesalamismo che tanto è amato qui al saloon, regalando momenti al limite del grottesco - la bistecca nel locale, l'inseguimento con l'incendio del poliziotto, il collirio allucinogeno - che sono stati, di fatto, una vera e propria pacchia per il sottoscritto.Ma è la passione amorosa che coglie Kemp travolgendolo ad aver in qualche modo vinto ogni mia resistenza rispetto all'apprezzamento di questo film, giocata tutta nella sequenza della macchina lanciata a tutta velocità e della sfida tra lo stesso giornalista e Chenault, simbolo di un gioco di seduzione chiaro fin dal primo incontro dei due eppure funzionale ed onesto, proprio come il resto della pellicola.Non chiedetemi, dunque, di difendere a spada tratta un film che è sicuramente un'opera minore che finirà ben presto nel dimenticatoio della maggior parte della critica e degli spettatori: in questo senso, non ho proprio nulla da dire rispetto alla resa - tecnica ed artistica - di The rum diary.Eppure, c'è qualcosa nel suo sonnacchioso incedere cui è davvero difficile resistere: un gioco di sguardi sornione, o una sbronza che pare non averci colpiti, e dopo un buon numero di cocktail, decisi ad alzarsi per andare in bagno o cambiare locale, ci inchioda alla sedia come fosse il più potente degli incantesimi.Un progressivo abbandono che è un massaggio da rollìo di barca e rumore di onde sul bagnasciuga, sole sulla pelle leggermente sudata di una donna che non ci basterà sfiorare con il pensiero e rum che tocca corde che non credevamo neppure più di avere.Prima della sveglia, della lotta, della presa di una coscienza che ci porterà avanti lungo la strada, perdersi così, lentamente, è un piacere indescrivibile.Qualcosa che, se non si appartiene a quella categoria di strambi zingari esploratori di vita, potrà sembrare inutile, insensato e privo di interesse.Come questo film.Fortunatamente per me, nella ciurma di quella nave destinata probabilmente a finire a fondo, sono una figura di spicco per natura.
MrFord
"I get knocked down but I get up againyou're never going to keep me down
Pissing the night away pissing the night away
He drinks a whisky drink
He drinks a vodka drink
He drinks a lager drink
He drinks a cider drink
He sings the songs that remind him of the good times
He sings the songs that remind him of the better times."Chumbawamba - "Tub Thumping" -
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