The Sound of the Life of the Mind, nuovo album dei Ben Folds Five

Creato il 24 settembre 2012 da Postscriptum

Da pochi giorni è uscito The Sound of the Life of the Mind, nuovo album dei Ben Folds Five. Un buon album – lo dico subito – all’altezza del precedente The Unauthorized Biography of Reinhold Messner (1999). Anche nel nuovo disco, come in Lonely Avenue (lavoro solista di Ben Folds risalente all’anno scorso) Nick Hornby presta il suo anglosassone aiuto al pianista statunitense più inglesizzante del panorama pop americano.

Personalmente ho sempre preferito i più ironici “Five” ai lavori del solo Ben Folds, ed eccomi finalmente accontentato – dopo più di dodici anni – ritrovo il basso distorto di Robert Sledge e la potente batteria di Darren Jessee. Il sarcasmo è sempre lì, palpabile sin dal brano di apertura Erase Me (link), dall’incedere lugubremente beffardo. Michael Praytor, Five Years Later (link) è un piccolo capolavoro, perfetto nella sua composizione. Manifesto, quest’ultima canzone, di tutto un genere a parte di cui fanno parte i Ben Folds Five. Che genere? Rock senza chitarra!

Probabilmente quando Ben Folds formò la band, aveva pensato anche ad un chitarrista, ma siamo ancora a quattro e mancherebbe comunque il quinto componente. In ogni caso, gli è andata benone così. Il Trio macina ancora alla grande, con prepotenza da gruppo punk, talvolta, … di rado ormai. I riferimenti stilistici sono sempre quelli, la band non è cambiata granché, neanche fossero gli Ac/Dc: un condensato di pianismo alla Elton John (o a la Billy Joel, fate voi, tanto non cambia), influenze grunge, McCartney qua e là, ed essendo americani non si può non citare anche Todd Rundgren, senza dimenticare i soliti Steely Dan.

Eppure – tanto lo so che questo Eppure ogni malcapitato lettore di questo articolo se lo aspettava sin dalle prime righe – il disco, malgrado i pregi procede troppo molle, come una dose di bromuro celata nel latte (si faceva così una volta, per calmare i bollenti spiriti dei militari. Leggenda?). Insomma, non dico che bisognava rifare la mitica Underground (uno dei miei brani preferiti in assoluto), ma Draw a Crowd (link) di sicuro non basta neanche minimamente a colmare la mancanza di sano, idiotesco e piacevolissimo rockeggiamento.

Boh, forse sono solo io che non capisco, o non voglio capire che, se forse le cose non cambiano, probabilmente si deteriorano (come il sound degli Ac/Dc). Per comporre quel meraviglioso primo omonimo album del ’95 occorreva essere uscito da poco dalle Scuole Superiori, o quanto meno esserci rimasto mentalmente. Così non avremo più Underground (link), o Jackson Cannery (link),  non più fragorosamente suoneranno nuovi brani come le chiassose e licealissime Sports & Wine (link) e Uncle Walter (link). Che la serietà fosse incombente già dal successivo Whatever and Ever Amen (serietà malgrado il titolo, ovviamente), lo avevamo capito sin dalla mollacchia (in the remove pants style) e famosa Brick (link) ma c’erano pur movimenti e funkeggiamenti esplosivi da godimento finto-ebete, come in Fair (link) o nella burlesca Kate (link), che rinverdivano comunque il magnifico esordio.

E ora? Dove sono le goliardie, gli scherzi, le beffe, le stupidate da adolescenti, i fidanzamenti a metà (ignara restando la controparte), quelli da contratto completo (i primi seri), a calia a scola, e insomma tutte quelle cose che rendono piacevole il ricordo di quegli anni?

In pratica, sono io che sono rimasto con la testa al Liceo, la colpa non è di Ben Folds e dei suoi cinque, ops tre. Il nuovo disco dei Ben Folds Five è…grazioso.

Gaetano Celestre


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