Magazine Diario personale

The spaces left when we stop singing

Da Margherita

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Di recente mi è capitato di imbattermi in un discorso pubblico di Ray Bradbury a proposito del mestiere di scrittore, all'interno del quale dichiarava di non aver mai lavorato un giorno in tutta la sua vita, essendo fermo sostenitore della scrittura come piacere.

Il discorso di Bradbury era rivolto ad un gruppo di studenti. Aspiranti scrittori, com'è facile intuire dalle amare risate collettive che punteggiano il filmato.
Io ho smesso da qualche tempo di considerarmi aspirante scrittrice, avendo realizzato che non ho bisogno della legittimazione altrui per attribuirmi un ruolo che sento mio.
Sono scrittrice, ma ciò non toglie che attraversi continui momenti o periodi di smarrimento, durante i quali vado alla ricerca di appigli, suggerimenti, ispirazione.

Guardare il video di Bradbury mi ha fatta stare malissimo. Me ne sono resa conto mano a mano che passavano i giorni. Credo di essermi sentita chiamata per nome svariate volte, mano a mano che l'autore snocciolava consigli pratici (ed impraticabili) per diventare abili narratori, per non parlare poi dei suoi lapidari giudizi sul presunto scarso valore di certa letteratura contemporanea, di certo autobiografismo.

Questa è la solitudine che ho cominciato a provare mesi fa, durante le mie gite frustrate in libreria, le mie fallimentari ricerche di libri fuori catalogo su Amazon. Non riesco a leggere perché necessito di voci confortanti, voci diverse da quelle che, come costante e scontato rumore di traffico, infestano le mie notti.
Le mie voci confortanti sono parola nuda e tagliente, femminilità oscena, rifiuto del contegno, furia.
Quando le ho sentite per la prima volta, non riuscivo a credere alle mie orecchie.
Il canto irato e depresso della mia comunità immaginata.

Mi scontro di continuo con tentativi di disciplinamento della mia voce. Le mie paure, le mie incertezze, le aspettative altrui.
Ciò di cui voglio scrivere e il modo in cui intendo farlo, ciò di cui scrivo e il modo in cui lo faccio sono materia ridicola ovunque io apra bocca.
Ray Bradbury riesce a ridicolizzarmi dall'Oltretomba, palesandosi come figurina semovente sullo schermo del portatile sul quale scrivo. Mi dice senza grossi giri di parole che la narrazione della mia quotidianità è pratica insignificante, il risultato indegno, prescindibilissimo.
Quando gli autori che amo si sentono in diritto decretare che certe forme di scrittura sono meno valide di altre, io torno nel silenzio desolato della creatura delegittimata. E uscirne è ogni volta così arduo.

Penso all'agilità con cui chi scrive da una posizione privilegiata spesso attribuisce marginalità, scarso spessore e ottuso particolarismo a chi, invece, opera dalle periferie, soprattutto se quest'ultim* sceglie di farne il proprio focus.

Le periferie dell'impero.
I polpastrelli delle dita.
Ciò che resta del corpo.
Ciò che una ragazza non dovrebbe ammettere.
L'incompletezza e l'imperfezione.
Le viscere esposte.
La provincia.

L'emozione esplosa sulla pagina.
L'emozione del personaggio secondario che dopo vite e vite di noia e oppressione, in preda alla rabbia, guadagna il ruolo di protagonista.

Ricordo con chiarezza il momento in cui mi scoprii provinciale, io che mi ero sempre creduta così sradicata dalle mie terre. Ero a Roma, circondata da scrittori. Si stava celebrando l'opera di David Foster Wallace. Tra un blocco di cinque minuti e l'altro - grappoli di conversazioni - ero nessuno, eccetto quando l'amica alla quale mi accompagnavo mi introduceva dicendo che alcune delle mie parole storte erano parte del catalogo Einaudi.
Non riuscivo a smettere di pensare al giorno in cui lessi "Una cosa divertente che non farò mai più", al modo in cui quel primo incontro con Wallace sconvolse il modo in cui scrivevo. Avevo quattordici, quindici anni.
Quando venni a sapere della sua morte, sprofondai nella scarsa musicalità delle mie viscere.
Uscii a bere qualcosa, informai gli amici dell'accaduto, ma nessuno lo conosceva.

(La periferia dell'impero)

Ricordo le letture proposte quella sera, l'inutile morbosità di chi scelse pagine infestate da corpi suicidati, e il dolore intensissimo che provai registrando la situazione nella mia memoria. Il fatto che fosse "un evento". Un evento che aveva preso una piega tremendamente macabra, almeno ai miei occhi di persona di provincia, che non era per niente abituata a raduni di commemorazione come quello.

Per contrasto, ricordo la trasparenza di Martina Testa, la sua lettura imperfetta, diversa dalle altre, e la gratitudine, l'amaro sollievo che provai nell'ascoltare il suono del suo dolore, la sua voce. Sullo sfondo, i commenti di chi si aspettava uno spettacolo perfetto, pulito e ordinato.
L'accettabilità dell'emozione solo se mediata da una maschera teatrale.
L'inaccettabilità del dolore vero.

Mi sento stupida ed egocentrica quando prendo atto dei modi in cui funziono e cesso di funzionare. La necessità di descrivere l'insignificanza, per darle peso. Le minuzie trasformate in migliaia di battute. I momenti in cui mi infilo uno straccio in bocca per impedirmi di dire ciò che sento veramente, ovvero che mi pare di provare ogni emozione con un'intensità smodata, come fossi una lente d'ingrandimento, una cassa di risonanza, un corpo vulnerabile, un corpo eccitato.
Provo vergogna quando oso dirlo, perché ad ascoltarmi sono persone che non capiscono o che non hanno ancora trovato la propria voce.

La mia comunità è umorale e frantumata, come il mio corpo.
È delocalizzata e verbosa, come il mio desiderio.
Ne ero parte prima di scoprirne l'esistenza.

Dalla mia posizione marginale, mi chiedo dove dovrei andare per sentirmi meno sola, anche se è da altre periferie che mi giunge sporadicamente il conforto che cerco:
Viscere esposte.
Sogni come lenti sul reale.
Dita negli incavi della spina dorsale.
Boschi per metafore.

---

Still, I go on and on describing the shape around the thing I want to,
But can not name, in song
And, though my long life feels busy and full of usefulness and drive,
I will sleep through every single dawn
And those I see, I will not really understand, though I try
I will sing through every single song
About the spaces left when we stop singing
And I will sing this with longing
(Mount Eerie, Stop Singing)

(immagine: Nathaniel Whitcomb - We Eyed Longingly)


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