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The Taking of Deborah Logan e l'orrore dei volti
Creato il 02 agosto 2015 da Frank_romantico @Combinazione_CIL CINEMA HORROR INDIPENDENTE
Ho sempre guardato all'horror indipendente come ad una boccata di ossigeno. So di dire un'ovvietà, so di ripetermi e di ripetere quel che molti sanno e hanno detto meglio, ma è nel mondo del cinema indipendente che fioriscono le idee. E l'horror si nutre di nuove idee tanto quanti di quelle vecchie. Anzi, credo che il genere horror sia quello in cui più di tutti le nuove idee permettano una piena rielaborazione del passato in un'ottica presente e contemporanea. Che poi i film facciano cagare, che siano poveri, che riescano male non importa. Perché (ma non è una regola) il cinema indipendente non deve sottostare necessariamente alle mode, né al mercato, ed anzi le mode le crea e il mercato lo condiziona. Ripeto, al di là della qualità del film.
Che poi, cinema indi non significa per forza cinema arrangiato, povero o amatoriale. Il cinema indi è quello che produce film non incanalati nel circuito della grande produzione, ma un film indipendente può esser prodotto da chiunque, anche dal vip di turno. E io ho sempre visto Bryan Singer come un VIP del cinema autoriale mainstream (I Soliti Sospetti, L'Allievo, Operazione Valchiria), poi "relegato" all'ambiente fantasy e cinecomics (gli X-Men cinematografici sono e rimangono una sua creatura). Quindi, nel 2014, vediamo Singer produrre un horror indipendente intitolato The Taking of Deborah Logan, girato dall'esordiente Adam Robitel. L'ennesimo mockumentary, l'ennesima sfida nell'inflazionato mondo dei film sulle possessioni. Due elementi che non incontrano il mio gusto al giorno d'oggi poiché credo che a tal proposito ci sia poco o nulla da aggiungere. Eppure si tratta di cinema indipendente, per cui vale quanto detto sopra, e in più io da questo genere di film non posso stare lontano: so che mi deluderanno ma li devo vedere lo stesso, non ci posso fare nulla.
THE TAKING OF DEBORAH LOGAN
Arrivo a parlare di The Taking of Deborah Logan fuori tempo massimo, come al solito. Mesi fa avevo letto qualche recensione di questo film (in coda metterò i link) ma poi avevo lasciato perdere la visione. Finché in una delle mie solite notti insonni, dopo esser tornato a casa da una bevuta con amici, non mi sono deciso a guardarlo scevro però di ogni ricordo legato a quanto letto nei mesi precedenti. L'inizio è incoraggiante: un gruppo di ragazzi sta effettuando uno studio/documentario sull'Alzheimer e per questo motivo sceglie di seguire la vita di Deborah Logan, una donna malata che vive in una casa in campagna assieme a sua figlia. Solo che Deborah si comporta in modo strano e non tutti gli avvenimenti che la coinvolgono sembrano essere legati alla malattia che le è stata diagnosticata.
Per prima cosa vorrei chiarire subito cosa penso di questo The Taking of Deborah Logan: il film non mi è piaciuto. Credo che, ancora una volta, il mockumentary dimostri quanto questo modo di fare cinema sia sorpassato e come sia facile cadere nello stereotipo pur partendo da basi assolutamente originali. E infatti quello di Robitel è un prodotto che finisce per ricalcare il sottogenere a cui appartiene, che incorre nei soliti difetti e che non è in grado, alla fine, di andare oltre. Però... ovviamente c'è un però, altrimenti non sarei qui a parlarne. The Taking of Deborah Logan inizialmente prova ad andare oltre lo stereotipo, riuscendoci. Perché i protagonisti armati di videocamera non sono i soliti cacciatori di fantasmi o gente alla ricerca del successo. Né si tratta di persone che ricorrono alla ripresa amatoriale per autoaffermare l'assurda verità che stanno vivendo. Mia, Gavin, e Luis cercano invece di documentare un orrore reale, una malattia degenerativa chiamata Alzheimer. Mia soprattutto, studentessa di medicina, è interessata alla malattia da un punto di vista professionale e assolutamente credibile, mentre i suoi colleghi lavorano per soldi. La stessa malata non vorrebbe avere degli estranei in casa che filmano il suo dolore: Deborah è una donna riservata e all'antica che è costretta ad accettare la situazione per due motivi fondamentali: problemi finanziari e l'alto prezzo che comporta la privatizzazione sanitaria. Lei e sua figlia Sarah, che ha abbandonato tutto pur di rimanere accanto a sua madre, hanno bisogno di soldi per sopravvivere ai debiti e all'alto prezzo che le cure ospedaliere comportano. Anche loro lo fanno per soldi. Loro lo fanno per sopravvivere.
LA MALATTIA CHE POSSIEDE L'ESSERE UMANO
L'orrore raccontato dal film è, inizialmente, l'orrore della malattia. Un nemico invisibile e imprevedibile che spaventa più di qualunque demone o fantasma. E fino a quando rimane quello l'avversario contro cui i personaggi si devono confrontare, il film funziona benissimo. Questo perché il titolo parla chiaro ma qui raggiunge una duplice valenza: la possessione di Deborah Logan è inizialmente quella esercitata dalla malattia, un bao bao che nasce dell'interno e si evolve fino a prendere il controllo totale di un individuo, svuotandolo e riempendolo di nulla, trasformandolo, rendendolo diverso da se. Un orrore incontrastabile contro cui persino lo sciamanesimo e la magia del nostro secolo non può far nulla: la scienza è impotente, in cervello umano è troppo complesso, l'Alzheimer è inarrestabile. Così noi assistiamo alla trasformazione di Deb e ne veniamo completamente atterriti. Le cose però non sono mai come uno se le aspetta e alla vicenda di Deborah, pian piano, si aggiungono misteri che nulla sembrerebbero aver a che fare con la malattia: tutto diventa nebuloso, i personaggi e lo spettatore non sanno bene dove appigliarsi e il film procede spedito e potente.
Noi che guardiamo sappiamo bene che piega prenderà la storia. Siamo già partiti con questa idea e abbiamo accumulato indizi. Siamo sicuri che l'uomo nero non è soltanto nella mente di una vecchia signora malata, assistiamo ad eventi inspiegabili e rimaniamo coinvolti. E se le cose fossero continuate in questa maniera sarebbe andato tutto bene. Invece no. Perché, quasi per paura di avventurarsi in luoghi inesplorati, ad un tratto Robitel tira il freno a mano e si rifugia nel classico film di possessioni con riferimenti chiarissimi all'Esorcista, qualche citazione qua e la e una certa rielaborazione attuale di certi spunti settantottini del film di William Friedkin. Questo significa individuare un antagonista, dargli uno scopo, spiegare allo spettatore tutto lo spiegabile e poi fare in modo che la situazione diventi la più concitata possibile: tra luoghi bui e apparizioni, oggetti che si muovono da soli, "buuu" e picchi di volume. La solita solfa, la solita storia. E se è vero che la critica alla sanità americana, luogo di automatismi e spersonalizzazione, diventa sempre più spietata, si finisce comunque per cadere nei cliché horror più abusati, mettendo a dura prova lo spettatore smaliziato.
I VOLTI
C'è una cosa che però The Taking of Deborah Logan sa fare molto bene: terrorizzare con i volti. Sembra una cavolata ma questa storia delle facce a me ha sempre fatto una paura fottuta. Disegnare un volto, saperlo fare interpretare, colpirlo con la giusta luce e muovere la MDP verso o lontano da esso crea un effetto incredibile. La pelle d'oca è assicurata. Questo perché è difficile sostenere uno sguardo dato in una certa maniera o le linee di un sorriso che farebbe gelare il sangue a un serial killer. La gestione dei volti in questo film è fenomenale, sia quando si vuole far paura, si quando si vuole trasmettere un'emozione. E trasmettere emozioni in un mockumentary può essere difficilissimo. Ad esempio il volto di Anne Ramsay che interpreta Sarah incarna tutta la disperazione e l'impotenza del personaggio. Ma a seconda delle espressioni facciali di questa bravissima attrice noi percepiamo e comprendiamo quel background piegato in poche frasi nel film. Scopriamo il suo desiderio di essere in un altro posto, in un altro luogo. Il sollievo che le da la presenza di Mia e dei suoi colleghi, al di là dei soldi che Mia le ha offerto. Comprendiamo che Sarah si sente sola e abbandonata, vittima del rapporto ambivalente con la madre.
Per non parlare del volto di quell'attrice immensa che è Jill Larson. Grazie a lei Deborah prende vita ed è capace di colpirci e spaventarci. Ci sono almeno tre o quattro scene in cui ti ritrovi a tu per tu non con il personaggio ma con la possessione dello stesso che traspare dai suoi occhi, labbra e guance. Dalla magrezza che tira la pelle sugli zigomi. Dai capelli e dal suo progressivo stempiarsi. In quelle scene, davvero, io avrei desiderato essere in un altro posto ed è incredibile come la stessa espressione e la stessa sensazione sopravviva fino al finale, su un altro volto, con un'altra attrice. Certo, senza una come la Larson sarebbe stato impossibile. Senza una fotografia così curata e una regia ineccepibile dal punto di vista tecnico (per quanto ne possa capire) con quei movimenti di macchina non tanto ovvi in un mockumentary l'effetto sarebbe stato mille volte inferiore. Ma è incredibile come l'orrore di un volto trasformi il volto nell'orrore. Qui sta la vera forza di un film che mantiene intatta questa caratteristica nonostante, a mio parere, nell'ultima mezz'ora vada completamente in vacca.
CONCLUDENDO
Niente, per me una nuova occasione sprecata. Nonostante la verosimiglianza e gli indiscutibili pregi, nonostante le buone idee, The Taking of Deborah Logan parte benissimo ma naufraga in un mare non così dolce. Avrei voluto altro, avrei voluto sapere meno, avrei voluto intuire più che vedere. Peccato. Ma io continuerò a dirlo: il mockumentary è morto e non può dare nulla di nuovo. Forse il cinema indipendente potrebbe essere fucina di nuove idee e di nuovi modi di concepire l'horror partendo dall'eredita che un grandioso passato ci lascia. Forse.
Bradipo Mari
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