The Terminal di Steven Spielberg. Metafore dell'iperrealismo
Creato il 28 agosto 2011 da Spaceoddity
Mentre un uomo, Viktor Navorski (Tom Hanks) atterra al JFK di New York, il suo Paese, la Krakozia, viene sconvolta da un colpo di stato e dalla guerra civile. Le nuove autorità non sono riconosciute dalla comunità internazionale, pertanto i documenti dell'uomo non sono validi e Viktor non può essere rimpatriato; ma - secondo le leggi americane - non può neanche varcare le soglie dell'aeroporto, perché non ha accesso al territorio degli USA. Straniero e incapace di comprendere l'inglese, viene dichiarato senza troppi complimenti "semplicemente inaccettabile". La brutale esattezza del lessico e le preoccupazioni carrieristiche del responsabile della sicurezza, Frank Dixon (Stanley Tucci) devono fare i conti, d'altra parte, con un uomo capace di aspettare, anche a lungo, che la situazione si risolva. Un uomo, per altro, capace, nel frattempo, di tessere relazioni importanti: con la bellissima Amelia Warren (Catherine Zeta-Jones), donna in fuga e donna in attesa perenne di una chiamata che non arriverà mai; con il dolce Enrique Cruz (Diego Luna), innamorato della splendida Dolores Torres (Zoe Saldana); con l'agente Joe Mulroy (Chi McBride) e con il responsabile delle pulizie del terminale, Gupta Rajan (Kumar Pallana). Un microcosmo dalle provenienze più diverse, fatto di nomi e cognomi, di trascorsi complessi al servizio di un paese, gli USA, che fissa i loro destini.
I mesi che Viktor Navorski passa al JFK, in un transito bloccato in ogni direzione, sono la storia che Steven Spielberg racconta in The Terminal (2004). Film audacemente metaforico, tanto che i particolari della trama sfuggono con facilità estrema per lasciare il posto a un'interpretazione esistenziale, The Terminal conferma anche la fortissima vocazione realistica di Steven Spielberg: mai ho trovato un regista, rubricabile sostanzialmente nel filone della fantascienza, tanto interessato al quotidiano, ai suoi oggetti, alle sue dinamiche, al suo scorrere. Anzi: è proprio su quest'ordinario che irrompe la fantasia abnorme di una vita che prende strade inaccessibili. L'autocitazione ironica di Ai confini della realtà, in bocca a Dixon, mi pare che confermi la volontà di far piombare l'assurdo nella vita, così come un po' tutti la condividiamo, perfino con Steven Spielberg.
Stranamente, Viktor Navorski sembra l'unico ad adeguarsi alla sua condizione di inaccettabile, l'unico a saper fare di uno spazio inospitale, di un microcosmo gonfiabile che sembra prendere il volo e atto a perdercisi dentro, un luogo atto a dimostrare che lui c'è. Lui è là, è ingegnoso, saldo nel suo proposito di uscire da quelle porte e andare a ottenere una firma per amore del padre. Ma, ironia della sorte, per avere quella firma, ce ne vuole un'altra... e poi timbri su timbri, e altre firme. Solo gli outsiders non firmano: sono lì ed esistono, vivono come meglio possono, non si limitano affatto a essere, sono semmai limitati nell'agire. Viktor, inseguito dalle lusinghe della burocrazia, sfugge a ogni suo ricatto, si mantiene uomo straordinariamente libero, legato semmai dall'affetto, dall'amore per il padre e dalla lealtà. Steven Spielberg non poteva scegliere protagonista migliore di Tom Hanks, lo stesso uomo che dieci anni prima aveva commosso il mondo nella lunghissima corsa di Forrest Gump.
Se c'è una cosa che, forse, può disarmare in The Terminal è l'insistenza esasperante sui parallelismi: i cercapersone e le attese infinite, le firme, l'assoggettarsi alle leggi e alle scappatoie omertose che le leggi stesse consentono, gli stessi generi cinematografici (visto che The Terminal è una storia d'amore, una metafora esistenziale, una caccia all'uomo e una meravigliosa declinazione iperrealistica di ciò che due anni prima, nel 2002, era stato Minority Report). Da questi paletti l'uomo sembra non riuscire a venir fuori: l'unica scappatoia da questa realtà incarcerata è qualche asimmetria del sistema, qualche crepa, qualche gap (lo so: inseguo il lessico di Matrix, prima o poi dovrei decidermi a parlarne, tanto più che alle giovanissime generazioni sembra che la trilogia dei fratelli Wachowski appartenga a epoche remote).
Ma forse qui sta il punto del film: riuscire a desemantizzarlo sarebbe una scappatoia narrativa, ma di scarso pregio, perché la realtà su cui interviene Spielberg (e penso in particolare a La guerra dei mondi) è piuttosto scialba. Ricordare le ragioni per cui gli improbabili compagni di "viaggio" di Viktor si trovano lì e lo aiutano, rafforzerebbe il romance, ma sarebbe una trappola - con risvolti più melensi che sentimentali - in cui certo un regista come Spielberg non cadrebbe. Solo che The Terminal obiettivamente soffre un po' della monodimensionalità dei suoi personaggi e dello spessore - anche attoriale - del protagonista. Le stesse inquadrature, come spesso accade in Spielberg, ondeggiano tra il primo piano e lo sconsolato affollamento, in cui è difficilissimo cogliere particolari, ciò che nuoce alla profondità di una storia toccante e degna di maggior successo. The Terminal non è tanto la storia di un apolide, Viktor Navorski conosce la sua patria e i suoi affetti, sa dove andare, non è un uomo senza meta: The Terminal è, semmai, un film sulle cose che contano, su quanto valgono, sul perfezionamento incessante della vita in un'attesa densa di significato.
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