Certo si fa fatica ad essere convinti delle proprie percezioni di fronte a un mostro sacro come Terrence Malick (regista misterioso e difficilmente etichettabile che ha portato nei suoi pochissimi film una forte componente intellettualistica) e alla consacrazione di questo film come vincitore della Palma d'Oro nella difficile piazza di Cannes.
Comunque sfiderò questo timore reverenziale, magari ammettendo preliminarmente la mia inadeguatezza culturale a cogliere la complessa sottotrama filosofica, musicale, religiosa, cosmologica che Malick tesse all'interno di questo film anomalo, in cui il racconto di una storia per certi versi un po' banale viene inserita (e allo stesso tempo contrapposta) in una riflessione di ampio respiro sulla vita umana all'interno dell'immensità e dell'inspiegabilità dell'universo e dei fenomeni naturali.
Così l'infanzia e l'adolescenza di Jack (da ragazzino Hunter McCracken, da adulto Sean Penn) in un sobborgo residenziale di una cittadina del Texas, le sue relazioni con un padre autoritario e anaffettivo (Brad Pitt) e una madre sottomessa ed eterea (Jessica Chastein), nonché con i suoi fratelli, in particolare quello caratterialmente più diverso da lui e destinato a una fine tragica, appaiono in qualche modo la traccia narrativa e parzialmente autobiografica che il regista utilizza per un suo dialogo interiore con il trascendente.
Parole sussurrate, musica sacra e sinfonica, immagini suggestive a metà tra il National Geographic e la trilogia Qatsi (grazie A.), inserti che ricordano quasi Jurassic Park, echi di 2001 Odissea nello spazio, presenza costante dell'elemento religioso sono le componenti che rendono quello che avrebbe potuto essere un racconto cinematografico tradizionale un oggetto nuovo dal punto di vista visivo e concettuale.
Esperimento dunque interessante, sebbene le sue diverse componenti non riescono ad omogeneizzarsi e amalgamarsi completamente.
Resta forte alla fine in me la sensazione che il film sia l'espressione di una necessità che frequentemente caratterizza una certa fase del percorso anagrafico dell'essere umano, quello nel quale si fa un bilancio della propria vita, il pensiero della morte si affaccia sempre più spesso alla mente, i ricordi dell'infanzia diventano vividi e la ricerca del trascendente e gli interrogativi sul senso dell'esistenza diventano inevitabili.
In tutto ciò appaiono inoltre determinanti il contesto culturale ed educativo nel quale il regista è cresciuto e il profondo condizionamento di una pesante cultura religiosa e di una morale molto rigida sullo sviluppo libero e completo della sua personalità adulta.
In definitiva, ho trovato potente (nelle immagini naturalistiche e nella rappresentazione della violenza delle relazioni umane) e tenero (nella rappresentazione della prima infanzia e della bellezza della natura) lo sguardo di Malick, e mi sono detta che la complessità e l'ampiezza delle nostre conoscenze non sono una protezione sufficiente di fronte alla smarrimento che l'assenza di senso e la fragilità della nostra dimensione umana sollevano a più riprese nella nostra esistenza.
Dal mio attuale punto di osservazione l'approccio di Malick, pur essendo visivamente di grande impatto, lascia perplessi in quanto irrisolto sul piano squisitamente umano, e il suo afflato poetico risulta troppo connotato e forse pretenzioso, sintomo - in qualche modo - di una sconfitta di quella visione umanistica che personalmente privilegio.
Voto: 3/5