Questo documentario , tratto dal libro omonimo di Christopher Hitchens, non è mai stato distribuito in Italia. Ci asterremo da commenti sulla questione, purtroppo pleonastici, ma non ne risparmieremo di entusiasti per questo gioiello che è attuale, nonostante noi lo vediamo con un ritardo di oltre dieci anni. Una piccola consolazione: abbiamo potuto godere dell’introduzione dell’autore e della sua cortesia nel rispondere ad alcune domande del pubblico, nel tempo – poco, purtroppo – che separava questa proiezione da quella successiva, nella stessa sala. Non appena cominciamo a contemplare le facce degli intervistati, a guardare le immagini di repertorio e ascoltare attentamente la voce narrante, siamo catturati dallo stile di quei documentaristi che denunciano ma che non vogliono passare sotto i riflettori, come invece ama fare Michael Moore o lo stesso Hitchens. Solo un diverso modo di lavorare, né migliore né peggiore, poiché lo scopo di contro-informare ha basi egualmente solide, ricerche accurate e la capacità di drammatizzare il materiale a disposizione per non mortificarlo in una mera sequenza di date. Lo stesso meccanismo che ci faceva pendere dalle labbra di Errol Morris, per esempio, in The fog of war: il personaggio inquisito era McNamara, ma la cultura della ragion di stato a ogni costo è la stessa che permea ogni atomo del nostro protagonista.
Henry Kissinger è stato tra i responsabili più noti della politica estera statunitense: braccio destro del presidente Nixon, dobbiamo soprattutto a lui alcuni sviluppi ancor più tragici della guerra in Vietnam, come il bombardamento dimostrativo della Cambogia; dobbiamo anche ringraziarlo per il golpe cileno dell’11 settembre 1973, la cui data coincide tristemente con quell’11 settembre più noto alla maggior parte di noi. E anche in questa seconda circostanza Kissinger avrebbe potuto giocare un ruolo cruciale, non fosse stato per il documentario di Jarecki. L’ex segretario di stato, infatti, era stato nominato da Bush nella commissione per indagare sugli attentati terroristici, proprio lui che intrattiene affari nei paesi arabi, ma il regista è riuscito a contattare le associazioni delle famiglie delle vittime e a mostrare loro il suo lavoro, scatenando una protesta e impedendo la nomina del vecchio politico. Un’azione politica, un risultato tangibile: una di quelle volte in cui il cinema riesce a influenzare positivamente il suo pubblico, a metterlo in guardia contro qualcosa che può non conoscere, soprattutto in un paese così bravo a vendere un’immagine di sé tanto orgogliosa ed edulcorata quanto falsa.
Quando qualcuno tra il pubblico, forse un giornalista, gli chiede se è al corrente dei rapporti tra Nixon, Kissinger e alcuni politici italiani, come Napolitano e Andreotti, Eugene Jarecki umilmente risponde che non è abbastanza informato sull’argomento. Ma aggiunge che conosce meglio la relazione tra il fu governo Berlusconi e l’America, all’epoca rappresentata dal degno compare Bush. Berlusconi, ha detto Jarecki, si è spesso detto amico degli Stati Uniti e Bush non ha mai declinato il complimento, contribuendo ad affossare la già compromessa reputazione del Paese agli occhi del mondo. Se un politico che controlla i media e il governo contemporaneamente è un caro amico della “democrazia” più potente al mondo, allora un cittadino americano dovrebbe porsi qualche domanda sul reale stato di salute della repubblica in cui vive. Jarecki ha anche notato che l’americano medio è immerso nell’illusione che il governo abbia una sua moralità, mentre i cittadini italiani sono molto più critici e disillusi nei confronti dei propri governanti. La domanda più dolorosa e scontata che possiamo porci, dunque, è questa: perché eleggiamo sempre gli stessi uomini, se siamo più coinvolti degli americani nel dibattito politico? Perché commettiamo sempre gli stessi errori? E perché, quando ci sembra che un nuovo decente stia avanzando, non è che una caricatura di un passato dittatoriale? Siamo stupidi o siamo solo un po’ ignoranti (nel senso etimologico del termine,a partire dalla scuola elementare), o non mediaticamente alfabetizzati?
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