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The Truman Show (1998) di Peter Weir, col suo carico di grottesco e di deliberato kitsch, con la tripartizione in spettatori-sala regia-vita di Truman (che dovrebbe provocare un'estraniazione rispetto all'elemento patetico), mi commuove invero ogni volta che lo vedo. Film nel film, studio nello studio, riproduzione di ogni elemento della vita e del cinema, è la storia di una persona braccata nella sua incisiva ricerca della libertà, sempre frustrata da un cinismo estemporaneo e sconvolgente. Eppure, l'uomo non si fa tarpare le ali, ha in mente - chiara - una cosa: vuole andare alle isole Fiji, perché non puoi andare più lontano senza dover tornare indietro. Truman, l'uomo per cui l'intera popolazione tifa e soffre, davanti alla cui vita ogni altra vita si paralizza nella più sconcertante astenia, brama una vita agli antipodi del suo mostruoso studio televisivo, dove ha tutto ciò di cui ha bisogno e viene imbottito di sufficienti paure per abbarbicarsi, come a uno scoglio, alla sua quotidianità "sicura".
L'uomo si accorge che qualcosa non va, ma i suoi sospetti vengono subito soffocati e derisi, nelle bocche teleguidate degli altri prendono il nome di "allucinazioni". Accade lo stesso nello straziante Changeling di Clint Eastwood o nell'asfittico Shutter Island di Martin Scorsese, ma in The Truman Show verità e finzione coesistono e vengono reinterpretati dalla presenza del pubblico e dall'abnorme consumismo ipnotico nel quale vegeta e sguazza un numero incredibile di spettatori-guardoni. Anche certe ingenuità, che non so bene se addebitare al demiurgo Christof o a Peter Weir (che, per altro, aveva già affrontato l'estraniazione rispetto al proprio presente in Il testimone) rientrano quel circuito di senso per cui, attraverso il montaggio delle scene, il normale si fa anormale e viceversa. Lo schermo televisivo catalizza lo smarrimento di significato delle cose e nel mondo.
Non ha tutti i torti l'architetto-demiurgo che gli si rivolge con tono supplichevole: là fuori non troverai più verità. Perché Truman vive la vita, anche se quella che vive è una sequenza di eventi che, a rigore, potrebbero susseguirsi e invece sono solo finzione. Tuttavia, la premessa affabulatoria di questo progetto non riesce a celare il marcio consumismo che lo sottende: Anche se il mondo in cui si muove è in effetti per certi versi fittizio, simulato, non troverete nulla che in Truman non sia veritiero. Non c'è copione, non esistono gobbi. Non sarà sempre Shakespeare, ma è autentico, è la sua vita. Ovvero, ma non lo si dice, la sua vita al cospetto degli altri, donata agli altri. La vita viene qui sfruttata, svenduta come materia vile, qualcosa da (e su cui) costruire. Ma una cosa come un altra, un programma come un altro di un palinsesto più ampio, tutto teso a concentrare su di sé gli sguardi di un pubblico anonimo e informe, a costo di dire (come in Quinto potere di Sidney Lumet): noi siamo le illusioni.
Al cinismo di queste "illusioni" guidate, a questo acquario di sofisticherie esotiche, Truman risponde uscendo dallo show bio-etologico in diretta, rimandando ad altre occasioni ogni ulteriore incontro, con il rischio di farsi davvero male e di non ritrovarsi più nelle sue domande e nelle altrui risposte (o nell'alibi di un'improvvisa sincerità). L'uomo rallenta e si cerca lontano dalle scene e dal facile successo che tutti "desidereremmo"; e da quel momento non sappiamo più nulla di lui.
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