Di
Cinzia Carotti. Siamo a Convigton, Pennsylvania. La prima scena inquadra un lutto, una tomba, su cui leggiamo la morte di un ragazzino di sette anni nel lontano 1897. Capiamo subito che ci troviamo all’interno di una comunità che ha scelto volutamente di allontanarsi dalle città industrializzate, non tanto per motivi religiosi, quanto per preservare una innocenza di spirito o semplicemente per allontanarsi dai meccanismi capitalistici. E’ un ambiente semplice, agreste, in cui gli abitanti sono dediti alla chiesa quanto alle tradizioni pagane, ai banchetti e a salubri eccessi come i giochi, la danza e le risa.
Questa bucolica cornice è costantemente minacciata, tuttavia, da delle
creature innominabili che impediscono alla gente del villaggio di oltrepassare un confine che venne negoziato con gli anziani all’inizio del loro insediamento nel territorio. Il patto è inviolabile e i confini vengono sorvegliati costantemente tramite torri di guardia e vedette. Il bosco è la sede di queste creature silvane, contraddistinte da un mantello rosso che ne copre le mostruose forme. Tutti gli abitanti del villaggio, invece, sono dotati di un mantello giallo, l’unico simbolo di appartenenza che li protegge dalle avversità del mondo. Il rapporto fra questi due confini si inclina sempre più quando delle morti improvvise iniziano a flagellare il villaggio e Lucius (Joaquin Phoenix), giovane introverso e coraggioso, chiede di recarsi in città per poter prendere delle medicine che possano aiutare il medico del villaggio a salvare le vite sofferenti. La cosa che gli viene negata.
La situazione precipita in breve tempo, poiché l’uomo varca di poco la soglia del bosco e le creature si manifestano in città per palesare il proprio disappunto per la violazione del patto. Lucius confessa intanto il proprio amore ad Ivy (Bryce Dallas Howard), giovane non vedente, con la quale scambia una promessa di matrimonio. Noah (Adrien Brody), un ragazzo con patologie mentali, è però segretamente innamorato di Ivy e, alla notizia della relazione tra i due, ferisce Lucius riducendolo in fin di vita. Ivy chiede così al padre di avventurarsi oltre il bosco per raggiungere la città dove potrà comperare le medicine per il suo amato, e ottiene il permesso. La sua lunga odissea la porterà non solo ad affrontare le proprie paure ma anche i segreti che lo stesso villaggio nasconde mettendo in discussione le scelte di vita di ogni singolo abitante.
Shyamalan è da sempre un regista profondamente controcorrente. Il suo impianto narrativo e stilistico esula da tutti i canoni classici del genere. Se volete un horror o un thriller ad alta tensione, cambiate film con Shyamalan resterete sempre delusi. Al regista indo americano interessa ben altro, ovvero creare un impianto simbolico che imponga allo spettatore un viaggio all’interno del meccanismo affabulatorio dimenticandosi completamente della realtà e fidandosi totalmente della racconto. E’ una fiaba, in parole povere, in cui viene richiesta una ingenua credulità per potersi avvicinare al dramma del sovrannaturale che è l’unico espediente possibile per narrare l’animo umano e le sue sfumature. Non sono personalmente vicina alle critiche che uscirono nel 2004 e che cercarono di iscrivere il film in un’analisi sociologica dell’America post
11 settembre. Sicuramente l’America sconvolta dagli attacchi terroristici, e in successiva battuta anche l’Europa, possono avere dei connotati simili al villaggio ritratto nel film come i contorni sorvegliati fino alla paranoia o l’ansia di queste creature così pericolose e diverse solo perché
esterne al proprio contesto abituale; ma ciò comporterebbe perdere una profonda orchestra di significati che esulano totalmente da questo tema. Il mondo accerchiato dipinto in questo film è chiuso in se stesso per offrirci un pretesto di conoscenza della nostra natura umana.
Prima cosa l’opera di Shyamalan è un costante dialogo con i film che lo hanno preceduto. Lo stesso Shyamalan è in dialogo con la tradizione cinematografica per esempio con Spielberg (per temi e vezzi narrativi – i bambini come sognatori) e Hitchcock (nella costruzione low cost della suspence, nel prassi della comparsata). Ne
Il predestinato si parla esplicitamente di una “
prospettiva obliqua” di vedere il mondo, qualcosa di anormale che non fa paura anzi permette di esaltare quelle figure che fanno di se stessi
“un miracolo vivente”. Shyamalan insiste in tutti i suoi film nella ricerca personale di cosa significhi appunto possedere un dono (tutti i suoi protagonisti esulano in maniera triste e combattuta dalla normalità) e ricercare al contempo un posto nel mondo pur essendo consapevoli della propria unicità. L’eroe non si definisce mai da solo ma attraverso un dialogo sofferto con l’altro che gli suggerisce una possibilità, e che l’eroe fa diventare una probabilità realizzandola e dando vita a quella che noi siamo abituati a chiamare come
speranza. Il cinema diventa una parabola stessa del dono tramite il quale il regista fugge dalla tristezza e dalla malinconia che inspiegabilmente lo colgono nell’ordinario quotidiano.
Ivy racchiude in sé la parabola già narrata nei tre film precedenti
(Il sesto senso, Signs, Il Predestinato). Il dono di Ivy è al contempo una maledizione, sfido chiunque ritenere la cecità una forma di fortuna, ma può anche essere una straordinaria occasione di verità. Ivy è Orfeo che attraversa la propria odissea a tentoni nella cecità dell’ansia per ritrovare il suo oggetto d’amore attraverso la paura e l’orrore della perdita. La
paura è quindi occasione di verità. Questi stadi estremi della vita si rivelano occasioni catartiche che se sorrette dalla fede, non religiosa ma quella forza di spirito di confidare nel proprio destino, aprono prospettive nuove e positive conducendoci verso uno stadio di profonda bellezza.
Tutto il film ruota attorno a questa speranza: le inquadrature, la magnifica colonna sonora che accompagna l’amore dei due giovani con un’orchestra di violini appena accennati e carichi di malinconia e mistero, i gesti (la mano protesa verso l’amore sfidando così la morte e la paura), fanno sì che lo spettatore faccia esperienza di questi momenti di Verità.
La prima fra tutte è che “il mondo si muove per amore, si inginocchia davanti ad esso ammirato” e che in sostanza non esiste altra storia degna di essere narrata se non l’Amore stesso. Attraverso la profondità di questo sentimento riusciamo a comprendere il meccanismo della generosità: ovvero quando chiediamo aiuto al contempo accettiamo di aiutare a nostra volta, in un dialogo ininterrotto che ci mette in comunione con gli altri. La seconda Verità è che l’Amore è una forza che esula dalla nostra reale comprensione, è un mistero, un dono inspiegabile che ci viene affidato perché l’uomo diventi degno di custodirlo “è sorprendente vedere quali persone l’amore sceglie di unire, non segue regole ma un amore che ti fa rinunciare a un altro amore non è giusto”. L’amore sarà sempre sfuggente e pur quanti siano i nostri sforzi di comprenderlo, possederlo, e normalizzarlo esso svanirà dalla nostra vita se non verrà trattato con il rispetto dovuto.
Se esiste una forza come l’Amore esisterà sempre anche il suo opposto l’Odio, che non potrà mai essere cancellato e camminerà di pari passo all’intensità con cui il primo si manifesta. Il rosso delle piante che si svela agli occhi increduli di Lucius, che le osserva con un misto di reverenza e passione, viene sotterrato dalla paura delle giovani che vedono spuntare i fiori sull’uscio di casa e li affossano con disperata malagrazia. Per Lucius il rosso è malinconia, desiderio, tenerezza, per gli altri abitanti è terrore, paura, malvagità. Il rosso è il colore del desiderio autentico e viene utilizzato come simbolo del sacrificio che siamo disposti a compiere per esso. Le bestie indossano questo colore proprio perché servono gli esseri umani del villaggio e li aiutano a giustificare la propria realtà. Mentre gli umani indossano la tunica gialla, da sempre simbolo di saggezza che preserva dai desideri distorti, ma è anche simbolo dell’invidia e della paura più cieca e stupida. Questi meccanismi connaturati nell’uomo sono impossibili da estirpare, si può solo avere Fede nel destino dell’essere umano. Quanto è difficile accettare un simile messaggio artistico oggi?
Si può dire che The Village è un film sull’Amore, ma anche sulla Fede nell’Amore. Si può creare la comunità perfetta ma se questa impedisce di realizzare la vocazione personale dei suoi abitanti è totalmente inutile, se non dannosa. Un uomo che si perde e si smarrisce nella frustrazione di non poter realizzare i propri desideri è costretto a ripercuotere il proprio dolore su tutti coloro che lo circondano. Di fatto la volontà di preservare dal dolore conduce sempre a un maggior dolore. In questo senso si può ritenere che la volontà di creare una sorta di innocenza ideale sia il più colpevole degli atti e dei sentimenti. L’innocenza non può essere ricreata, anzi si deforma in qualcosa di mostruoso come un movimento soffocante, paternalista, falso e degradante. Per rallentare lo sfaldarsi della menzogna non si può far altro che instillare la paura ma, tuttavia, a un certo grado di paura corrisponderà sempre una certa dose di curiosità tale da poterla vincere. Nulla di ciò che viene creato per reprimere è costretto a durare. All’interno di questo villaggio paternalistico, infatti,vediamo come l’autenticità non possa essere arrestata. Se siamo mossi da una sincera carità nulla può impedirci che essa si realizzi, tanto più se siamo disposti ad un’enorme sacrificio per essa.
Questa polisemia di significati viene messa al servizio di una storia carica di bellezza, passione, mistero e gioia per la vita diventando così un profondo messaggio curativo. Attraverso il film capiamo che maneggiare noi stessi, i nostri doni spesso mascherati da difetti, conoscersi per conoscere gli altri sono degli imperativi categorici per non cedere alla disperazione indotta dall’alienazione e dalla tristezza. Shyamalan fiero del proprio anacronismo non cede a quel senso di cinismo e umorismo disilluso che contraddistingue ormai il pensiero dominante sia artistico che filosofico. Nei suoi film non si maschera l’essenza, anzi la si mostra con fierezza. Per fare questo viene richiesto allo spettatore di sospendere la propria abituale incredulità in modo da essere totalmente invaso da quella autenticità miracolosa che l’uomo è e sarà sempre in grado di creare se mosso da quell’istinto primario che è la speranza nell’Amore.
E’ un film essenziale che deve essere assolutamente visto sia per l’altissimo livello di regia, sia per lo straordinario contenuto narrativo. Straordinaria gli attori in particolare Joaquin Phoenix, che costretto a un pressoché totale mutismo, riesce a dipingere un personaggio profondissimo. Menzione speciale per la magnifica colonna sonora di James Newton Howard che è stata nominata per l’Oscar alla migliore colonna sonora del 2004. Newton Howard, ha realizzato le musiche di tutti gli altri film diretti da Shyamalan, che non sono orpelli narrativi ma veri e propri momenti catartici dei film.
★★★★1/2