Il primo passo è quello di ammettere di avere un problema. Si dice così solitamente, in generale, nella vita. Nel cinema è lo stesso, finché non te ne rendi conto procedi con gli errori, ti perdi, entri in crisi, fino a quando non capisci che ti serve una mano e allora ti affidi a qualcuno, uno bravo, uno che sbaglia poco. Per M. Night Shyamalan questa persona è Jason Bloom, uno dei produttori più perspicaci della scena cinematografica moderna, specializzato negli horror, proprio quel genere che ha lanciato e puntato le luci della ribalta sul regista (e sceneggiatore) de "Il Sesto Senso".
Vuole sostegno in questo momento Shyamalan, gli serve, ha sbagliato troppo e tanto per osare ancora e quindi si mette nelle mani di chi ci si può fidare, di chi è abituato a lavorare con gli esordienti, i semi-sconosciuti, certo che, magari, nel suo caso, con un curriculum rispettabile a favore, la carta bianca messa a disposizione sia superiore agli standard. Per la prima volta nella sua carriera scrive e dirige quindi una pellicola adottando la tecnica del found-footage, piegandosi al mercato e affidando il ruolo dei protagonisti a due adolescenti, fratello e sorella, infettati dalle mode e dai tempi che corrono (in perfetta linea con le policy più o meno standard di Bloom). Affida il punto di vista, ovvero la narrazione, alle due reflex (inizialmente una sola, poi raddoppieranno) con cui la sorella maggiore (aiutata dal fratello) ha deciso di documentare il piccolo segnale di pacificazione che dopo anni sembra esserci stato tra sua madre e i genitori, quei nonni che né lei, né suo fratello sono mai riusciti a conoscere perché in rotta con la famiglia per via di un matrimonio, ora finito, su cui non erano d'accordo. Ma una settimana da loro, ospiti nella casetta in campagna, dovrebbe rimettere finalmente le cose apposto, bastare per stringere quel rapporto solido tra nonni e nipoti e far rilassare la madre in vacanza insieme al suo nuovo compagno (tornando, chi lo sa, più disponibile al perdono). Questo almeno se arrivati a destinazione i due ragazzi non si rendano conto di quanto i loro nonni si comportino in modo strano.
Rinuncia allo scheletro dunque Shyamalan, alla conformazione, ma si tiene stretto i diritti riguardanti il movimento e l'azione, comandando il suo lavoro secondo quelli che sono i parametri di autore più vicini al suo tocco. Crea tensione, crea soprattutto ironia, andando, se vogliamo, ad allargare o a sforare i canoni standard di un prodotto solitamente pensato per dare il meglio di sé nella parte conclusiva e molto poco prima. Senza esagerare con l'estro, invece, il suo "The Visit" riesce, piuttosto bene, a mantenersi compatto in forma costante, rispettando le regole del genere che incorpora e dando ugualmente quell'accelerazione deflagrante nel momento decisivo (con un colpo di scena preciso e scioccante). Questo perché la sceneggiatura in questione, paragonata ad altre analoghe, contiene l'esperienza e la preparazione di chi non si limita a confezionare un prodotto e basta, ma anche ad ingannare e a sconvolgere lo spettatore; e per quanto possa non essersi spremuto al massimo, Shyamalan, rimesso in quel territorio che governava, fornisce la prova inconfutabile che i suoi connotati non sono affatto traslocati o deceduti, adempiendo al suo incarico con un talento ancora superiore alla media.
Quel regista che conoscevamo, ci dice "The Visit", esiste ancora, è li, da qualche parte, in attesa di rendersi conto di come fare per poter tornare a regime. Per adesso, ha capito solo, forse, come tenersi a galla e non affondare, aggrappandosi al salvagente di un produttore che - glie ne dobbiamo dare atto - ha consentito dopo anni di insuccessi che la sua filmografia si macchiasse anche di un prodotto positivo, che non la migliora tantissimo, ma decisamente non va a peggiorare una situazione nella quale l'impasse sembrava l'unica via.
Al contrario, questo passetto avanti, per lui, potrebbe essere stimolo da cui andare a pescare nuova stima e coraggio.
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