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The Walking Mountain.

Creato il 11 gennaio 2012 da Blogdispiccioli @blogdispiccioli
The Walking Mountain. Abbey Road originariamente doveva essere intitolato Everest, pensò guardando le montagne. Elia aveva appoggiato sulla scrivania due fasci di lettere impolverate. Per la prima volta aveva deciso di affrontarle con piglio da uomo adulto. Era all'ultimo anno di liceo, ma credeva di sapere già tutta la storia che Gagliardi avrebbe dipinto con le mani in 5°E, nelle lezioni che precedevano la primavera. Era il professore più amato e benvoluto della scuola. Abitava in un paesino vicino le rocche, ma, al contrario degli altri insegnanti, non aleggiavano leggende sul suo conto. Aveva una moglie ed una figlia, portava spesso la cravatta e non trascurava mai la rasatura della barba. L'edificio scolastico manteneva, con le porte in legno scuro e i muri bicolori, un certo fascino austero che suscitava persino affetto. Sul muro della palestra c'era una scritta a pennarello rosso, proprio vicino agli spogliatoi. "Mio nonno ha fatto la guerra!" Le parole erano sottolineate due volte. Elia restava spesso a guardarla, curandosi di non fissarla, sempre con lo stesso interrogativo. A chi sarà saltato in mente di scriverlo? Sarà successo dopo una discussione accesa, chissà, magari qualcuno ha sentito uno scatto d'orgoglio nostalgico. A lui non era mai capitato di dover tirare in ballo i suoi antenati, si accendeva solo ora un senso di profonda curiosità, che lo motivava nel tagliare il cordoncino secco, stretto attorno alle lettere. Sin da piccolo era affascinato dalla guerra in montagna, dalle battaglie tra i boschi. La fantasia aveva mescolato i tratti degli eventi, e, quando si immaginava adulto, vedeva il suo elmetto spuntare da una ferita scavata tra i monti. Avrebbe combattuto dalla parte giusta cacciando lo straniero invasore. Lui e il suo amico Yako, che non vedeva più da almeno cinque anni. Non riusciva a dare un numero alle estati passate nel fortino. Il legno non si trovava mai, e così avevano costruito uno di cartoni e pali di plastica ricavati dalle vecchie scope. Non era il fortino sull'albero delle illustrazioni dei libri ma la guerra si faceva benissimo anche da lì. Più che battaglie, era un continuo allenamento ad un possibile attacco. Si preparavano con cura costruendo archi più grandi, scavando piccoli rifugi dove mantenere le posizioni e rinforzando i muri fragili con altro cartone ondulato. La catapulta era sempre pronta a scattare. Yako sognava di fare il chimico. Bene, disse Elia, in guerra ci sarà bisogno anche di te! Riappropriarsi di un senso, voleva dire andare alla fonte, nello squarcio di vita di chi era venuto prima di lui e che di lui faceva parte. Il primo fascio di lettere risaliva agli anni successivi alla guerra. Erano lettere che il nonno e la nonna si scambiavano quotidianamente. Si potevano catalogare cronologicamente ed era difficile che capitasse un giorno senza corrispondenza. Perlopiù erano raccomandazioni e piccoli promemoria, occasionalmente trovavano spazio dichiarazioni di affetto reciproco, lo stile era pieno di misura e chiarezza. Non le lesse tutte, eppure, dopo averle raccolte con uno spago nuovo, meno ruvido, aveva l'immagine tangibile di quei giorni del '49. Il treno che portava i pendolari e la vecchia stazione della metropoli ritratta su qualche cartolina. Una volta, quando non c'erano tante macchine. I personaggi si muovevano tra le righe e le lettere raccontavano una vita che aveva sempre immaginato in bianco e nero, come nei vecchi docu-film Luce. Se avesse preso a sfogliare velocemente col dito le pagine ben strette, le parole si sarebbero animate per davvero, imitando i libricini illustrati di Bula Bula. "Mio nonno ha fatto la guerra!" Sottotenente in Russia con la Brigata alpina Julia. Morì quando Elia aveva solo cinque anni, giusto in tempo per fissare l'indelebile immagine di quel tenace uomo anziano, dai baffi grossi e spessi come due maniglie di avorio. Portava nella memoria un giorno di Natale, quando, con le gambe penzoloni sulle sue, assaggiò la birra. "E' così che crescono i baffi agli uomini! Proprio come i miei!" Si guardarono nello specchio della sala da pranzo e lui rise per la smorfia che fece Elia quando leccò via la schiuma amara.
Le dita erano scure di polvere e fece un salto in bagno a lavarsi le mani. Il secondo plico lo incuriosiva quasi più del primo. Era meno alto, c'era un foglio che ne avvolgeva il contenuto, nascondendolo dalla noia del tempo. Svolse lo spago e sfilò quella pagina di carta sottile, dove erano scritte poche righe battute a macchina: -Vietato pubblicare le fotografie di Carnera a terra.- Era datato Giugno del 1935 e portava il timbro del Ministero della Cultura Popolare. Carnera era stato un pugile, il più famoso degli anni trenta. Aveva vinto il titolo mondiale dei pesi massimi, era la montagna che camminava, il gigante buono. Quella pagina finissima aveva custodito per anni decine di ritagli di giornale che documentavano le gesta del pugile venuto dalla miseria, fenomeno in un circo itinerante, divenuto poi uomo simbolo del fascismo. Il sorrisone pieno di denti storti, la grande gengiva e l'inevitabile naso ritorto dai cazzotti. Il nonno doveva avere poco più di dieci anni e lo seguiva come un idolo. Non c'era traccia di notizie dal fronte, di cartoline piene di angoscia e di terrore. C'erano i ricordi di un bambino innamorato di un gigante e poi quella lettera, che stonava tra i ritagli. Il Ministero della Cultura Popolare aveva un'abbreviazione ridicola, MinCulPop, organo fondamentale nella vita politica del fascismo. Da lì partivano tutte le direttive ai giornali e alla radio per indirizzare l'informazione a piacimento del partito. C'erano cose che potevano essere dette, altre che andavano ammorbidite, altre neutralizzate e censurate.
Come fosse finita lì restava un mistero. Elia pensò all'ipotesi più plausibile, ossia che il nonno avesse trovato quella lettera dopo la guerra, magari grazie ad una persona che aveva lavorato per il Ministero e ne era entrata in possesso, oppure da qualche giornalista che aveva visto recapitarla in redazione. Chissà. Frugò tra i ritagli, in cerca della notizia a cui non allegare la fotografia, ma evidentemente non aveva conservato l'articolo della sconfitta. Il film di quei giorni si svolse davanti ai suoi occhi. Lontano dalle bombe e dal gelo della Russia c'era un pezzo della sua storia. Ad Elia non aveva mai entusiasmato il pugilato, ma promise a se stesso di rimediare e di approfondire l'argomento. Avrebbe cercato informazioni su Primo Carnera, a poco a poco lo avrebbe fatto entrare nella sua vita, come a trattenere un ricordo puro legato alla passione del nonno e alla sua infanzia. Quella lettera che avvolgeva i ritagli restava aperta sulla scrivania, simbolo di una realtà celata alle persone che vivevano una storia raccontata a frammenti, nascosta agli occhi del paese, nel continuo vanto di una gloria evanescente e destinata a crollare. Come Carnera, in ginocchio, contro Joe Louis. Elia non sapeva pensare alla reazione del nonno di fronte a quelle parole. Era solo una piccola storia sospesa nel vento. Stracciò la lettera, senza timore. La carta antica, ad ogni strappo, emetteva un suono dolce, quasi liberatorio. La cellulosa aveva perso ogni corposità e gli angoli non ferirono le dita.
Everest era il nome di una marca di sigarette. La montagna non c'entrava niente.
Alessio MacFlynn

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