Prima di cominciare, è bene tirare un lungo respiro: training autogeno, come direbbe una mia amica.
Poi, un piccolo preambolo, non per i lettori di lungo corso, o vecchia guardia, come preferisco chiamarli io, ma per i più recenti che, per forza di cose, ancora non mi conoscono: adoro Carpenter. Se volete delle prove, vi basterà andare a ripescare nell’elenco delle recensioni, quelle dedicate ai film del maestro.
Seconda cosa da notare, sono sempre stato gentile, ma inflessibile nei suoi riguardi, soprattutto verso alcuni dei suoi lavori (leggasi Fantasmi da Marte) che proprio eccezionali non sono.
E non è solo questione di affetto, quello che mi porta a essere indulgente verso questo regista, ma sincera ammirazione.
Però, un conto è ammirare qualcuno, un conto è essere ciechi.
E allora è il turno di The Ward, il Reparto, che segna il ritorno di John alla regia di un lungometraggio dopo ben 9 anni di pausa. L’ultimo è il sopracitato ambientato sul Pianeta Rosso.
Ecco, non per rovinarvi la sorpresa, ma per la prima volta nella breve storia di questo blog, mi concederò il lusso di una doppia recensione: la prima riassuntiva, per coloro che non vogliono spoiler, la seconda per quelli assetati così tanto di conoscere il mio punto di vista, che proprio non possono farne a meno.
E dunque, versione a) e versione b).
Vado subito con la prima:
a) ma che ca**o è stammerda??? (™ by Poggy)
Spiacente dirvelo così, a bruciapelo, ma è inutile girarci intorno.
Ora, per la versione b), continuate a leggere…
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Amber Heard è una donna bellissima. Perché negarlo? Ma, lo sapete, qui la Regina è Zooey.
È importante per capire che no, non assisterete a uno sbrodolamento continuo e umiliante verso le sue sottane. Cioè, Amber mi piace, ma la recensione non ne risentirà.
E si inizia con lei, fuggitiva, braccata dalla polizia, in un paesaggio campestre e assolato. Sole basso e colorito dorato, diciamo pomeriggio inoltrato, verso le due.
E la fotografia, la potenza evocativa della sequenza, ovvero una donna che corre per i boschi, sporca e affannata, ma soprattutto la qualità della luce e il colore, fanno urlare al miracolo.
Diciamoci la verità, i film di John non sono mai stati eccelsi dal punto di vista scenografico. E invece questo sembra arte in movimento. Che poi dovrebbe essere proprio quello, il cinema: arte.
E allora stai lì a pensare di stare per assistere non solo a un ritorno, ma a un’epopea che per troppi anni era mancata a me e a tutti gli appassionati del maestro.
Impressione rafforzata dai titoli di testa: qualità elevatissima, immagini, o meglio ritratti che si frammentano perché superfici di cristallo rotto. E ancora carrellate in bui corridoi dai pavimenti lucidi, quelli di una clinica psichiatrica.
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Un manicomio. La pazzia al cinema dà grande soddisfazione. È sfida per il regista, innanzitutto, e per gli attori che, da anonimi manichini, diventano vivi. Non c’è miglior modo di una (finta) psicosi per tirar fuori tutte le doti di chi si nutre di questo mondo di cartone. Ognuno con in mente bello stampato il ghigno di Jack. Sono cose che fanno grandi e non si dimenticano.
Ma… ci si addentra nel reparto. E qui inizia il film. Reparto femminile. Amber, che qui si chiama Kristen, viene acciuffata dopo la fuga bucolica conclusasi nell’incendio (opera sua) di una fattoria e sbattuta nell’istituto, dove ovviamente verrà curata con massicce dosi di psicofarmaci, gentilmente somministratigli senza alcuna anamnesi, elettroshock, per controllare i suoi momenti, chiamiamoli così, più ruspanti, e colloqui senza molto senso con le sue coinquiline.
E le coinquiline e le cure e tutto l’apparato a base di misteriose sparizioni e igiene mentale, ma soprattutto loro, le biondine vestite a festa, cominciano a ricordare tutt’altro impianto scenico. E iniziano i sudori freddi. Ma che succede?
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Succede che, nel reparto, le pazienti scompaiono perché qualcosa le prende. Stranamente, però, a nessuno degli addetti alla struttura sempra fregare qualcosa.
Ma il film più o meno regge. Complice, come detto, la bellissima fotografia.
Addirittura diviene non dico estasi, ma piacevole maestria quando John, lungi dal dispensarci nudità gratuite quanto scontante (e che avrebbero dato ragione a coloro che lo vogliono in fase viagra, ndr), e limitandosi, perché no?, a qualche schiena sotto la doccia (in una scena, in ogni caso, evitabilissima), ci mostra un momento di delirio misto a musica, quando tutte le ospiti si mettono a danzare sullo sfondo di un temporale in arrivo.
Sempre le ospiti, ben diversificate nei loro disturbi, ma non eccellenti, costituiscono fattore di interesse.
Ma c’è qualcosa che non funziona. Tante cose, purtroppo.
Arrivati, diciamo, a metà del film, appare chiaro dove lo stesso voglia andare a parare. Non bastasse l’inserimento di strani (e proprio per questo opportuni) fucili di checov, si devono ricordare due fattori fondamentali:
1) il luogo è un ospedale psichiatrico.
Ragion per cui, nonostante a noi tutti spettatori suoi fan piaccia credere a strane creature infestanti e sovrannaturali, quale sarà mai la causa più probabile di queste strane creature in un posto come quello? Non rispondo neanche.
2) il personale della clinica non se ne frega nulla delle pazienti che scompaiono sotto il loro naso e continua imperterrito a essere cieco e odioso, come da cliché dottore+infermiera stronza & sadica. Pazienti che pure avranno delle famiglie che chiederanno di loro.
A questo punto, per sapere come finisce il film basta fare due più due. Ma questo non è sufficiente a trattenere John dal fornirci l’orrido spiegone finale che, proprio, chiarisce tutto, fino in fondo.
***
Per concludere, belle ragazze? sì, mostri strani e vendicativi? sì, situazioni improbabili, ma con spiegazione? sì.
In breve, un ritorno tanto atteso, questo The Ward, quanto disatteso. E in ciò i giudizi eccellenti rinvenuti su IMDb sono dimostrazione di come agli americani bastino Amber Heard e un mostro stupido per avere un gran filmone che li faccia sobbalzare. Qui abbiamo solo una noia mortale e situazioni da sceneggiato in bianco e nero, bellissime per carità, ma situate in un non-tempo.
Nove anni per creare una trama nata già vecchia di cinquanta, come minimo, forse anche di più.
La tensione latita, per non dire che non esiste, e il sobbalzo finale, cui è dedicata l’ultimissima inquadratura, non fa che rendere ancora più ridicolo e stereotipato il tutto. Carpenter copia sé stesso e non riesce più a essere innovativo, come è sempre stato. Ed è questa la cosa che indispettisce di più. Plauso a Yaron Orbach, direttore della fotografia, pregevolissima.
Non siamo ai livelli di Argento. E, per capirci, tra i due c’è (e forse ci sarà sempre) un abisso. Ma John ci ha viziato con ben altre perle.
Questo, purtroppo, è un pastone.
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