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The Way Back, una recensione

Creato il 31 gennaio 2011 da Anellidifum0

The Way Back, una recensioneIeri con la compagna di viaggio (in agitazione per un importante incontro di dottorato) siamo andati a vedere l’ultimo lavoro di Peter Weir, The Way Back.

Se vi ricordate il film Into the Wild, di  Sean Penn, questo è un film molto simile per fotografia e bei panorami. Dunque raccomando di vederlo in un cinema con schermo grande, perché ne vale davvero la pena. Per gli amanti di Peter Weir, però, avviso subito che la pellicola sarà una delusione. Qui il regista australiano vorrebbe tornare sui toni del suo meraviglioso Gallipoli, ma la cosa proprio non gli riesce perché gli viene a mancare una sceneggiatura in grado di costruire dei personaggi belli come quelli del film sulla Prima guerra modiale.

Anche se il film è forse il più deludente di Weir, conserva tuttavia alcuni pregi. Anzitutto, fa vedere la realtà di un lager siberiano, cosa che a mia memoria non capita poi così spesso nemmeno nella cinematografia americana, figuriamoci in quella australiana. Appare subito chiara la diversa funzione del lager rispetto al campo di sterminio nazista: nel primo manca l’industria della morte e i prigionieri (messi lì per aver osato dissentire dal regime, o per essere banali criminali) sono costretti a lavorare in condizioni estreme che possono facilmente portare  alla morte, che però non è causata in modo diretto e voluto dalle guardie rosse. Sotto questo aspetto il film è fedele alla ricostruzione storica e può servire a quei qualunquisti che son convinti dell’equazione nazismo=stalinismo, campi di sterminio=lager.

Ma il protagonista del film non è il lager. Il protagonista è la lussureggiante natura della grande Russia, e poi della Mongolia, le montagne del Tibet, le colline dell’India. La storia, tratta dalla realtà, è un topos classico: un gruppo di prigionieri prova a scappare dalla loro prigionia. Come? A piedi. Camminando per mesi, e poi per anni, in condizioni estreme. Partiranno in un bel gruppo, arriveranno in pochi. Particolarmente azzeccato il personaggio di Colin Farrell nei panni di un criminale russo ancora idealizzatore di Stalin e Lenin (che porta tatuati sul petto) e non disposto a lasciare la sua patria nemmeno da fuggitivo. Gran prova di recitazione anche di Ed Harris, seppure il suo personaggio è quello più tirato per i capelli nella sceneggiatura. Ma non è certo colpa dell’attore, che anzi qui offre una delle sue migliori interpretazioni. Non convince, al contrario, la recitazione dell’unica attrice, Saoirse Ronan, in un “all boys movie” come non se ne vedevano da tempo.

Il film termina con una specie di Bignamino storico che riassume le vicende del comunismo brutto e cattivo dal 1940 al 1989. Il finalino didattico se lo potevano risparmiare, ma capisco che per il pubblico australiano e nordamericano torni utile, perché mediamente i miei studenti non sanno niente della storia del Novecento.


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