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L'amore viscerale che riservo a un regista come Scorsese penso sia abbastanza evidente ormai. Non a caso il mio nickname è Martin Scortese. Non starò qui a fare una prosopopea sul perché mi piaccia così tanto e perché lo ritenga, di fatto, il mio regista preferito. Vorrei concentrarmi sul suo ultimo lungometraggio, The Wolf of Wall Street, e spiegare perché lo ritengo un filmone come pochi e un tassello importante della poetica, se così la possiamo definire, di questo cineasta. Il film narra la vera storia di Jordan Belfort, la sua ascesa nel mondo dei broker alla fine degli anni 80, con la fondazione di una sua società capace di fatturare 23 milioni in un mese, e il suo conseguente declino. La cosa che salta all'occhio immediatamente è la freschezza nella sguardo di Scorsese (71 anni), che riesce a descrivere in maniera acutissima, dinamica e anche feroce un mondo incredibile, fatto di eccessi, sesso, droga, alcool, nani usati per il tiro al bersaglio e chi più ne ha più ne metta. Affidandosi a giganti della recitazione, come Di Caprio e Jonah Hill, per non parlare di McConaughey, che in 15 minuti di apparizione buca lo schermo e da vita, insieme al protagonista, a una delle tante scene cult presenti nel film, Scorsese riesce in una gran riflessione sulla deriva causata dall'eccesso di denaro innanzitutto ("avevamo più soldi di quanti ce ne servissero") che si traduce nell'eccesso in tutto. Non c'è un attimo di sosta, di respiro.
Il film, della durata di 3 ore, fila liscio come un bicchier d'acqua, e grande merito va dato a Scorsese che confeziona un montaggio quasi delirante e allucinato, frenetico e spintissimo. Il tutto girato con immensa maestria. Parlavo delle scene cult, ecco, sono sicuro che tra 10 anni (e anche meno) continueremo a pensare a questo film e ci verranno in mente una marea di scene menzionabili. Vuoi per la potenza prettamente visiva di alcune scene, vuoi per alcune battute o per alcuni dialoghi, vuoi per una particolare canzone in un determinato momento, vuoi per un'inquadratura particolare. Poco importa, ce lo ricorderemo, e sfido chiunque a dire il contrario tra 10 anni. Vedremo. Se poi volessimo inquadrare questo film in un determinato genere direi che ci troviamo di fronte a una commedia nera. Per il semplice fatto che ci sono scene che fanno ridere a crepapelle (il padre di Jordan, Mad Max, interpretato da Rob Reiner, è protagonista di un paio di scene da lacrime; la già citata scena di McConaughey nei panni di Mark Hanna; l'incontro sullo yacht da Jordan e i due agenti dell'FBI) ma l'atmosfera che si respira è quella di un inferno grottesco, di una spirale di vizio e lusso senza uscita che sembra ricordare, per certi tratti, anche Casinò, in cui gli eventi, come in questo film, diventano semplicemente incontrollabili per i protagonisti.
Mattatore assoluto è ovviamente Leonardo Di Caprio, che con questo progetto si è spinto oltre qualsiasi altro lungometraggio fatto in precedenza con Scorsese, rendendo al meglio in un personaggio arrivista, ambizioso, cocainomane, sesso-dipendente, con una prova molta fisica, fornendo il suo corpo per orge e balletti deliranti. Ma tutto convince della sua prova, di un'esagerazione a volte anche misurata. Lode anche a Jonah Hill, che dopo l'ottimo Moneyball, si dimostra un eccellente braccio destro in film dai toni più drammatici. Un personaggio, quello interpretato da Hill, che sembra una proiezione più soft, per forza di cose, del Joe Pesci di Goodfellas o dello stesso Casinò. Sono due facce diverse dello stesso eccesso, in fin dei conti. Ottimi sono anche i contribuiti musicali, che passano dal jazz al rock dei Foo Fighters, dai Lemonheads a canzoni dal gusto totalmente italiano. Cercare significati nascosti in questo film è come cercare dei premi Pulitzer a casa di Fabio Volo. Inutile. Per il semplice fatto che è un film diretto, senza filtri, il più sboccato di Scorsese (si contano 506 "fuck" e relative variazioni della parola nel film), il più spinto sessualmente del suddetto regista.
Ma la sensazione che si ha, e non voglio fare spicciola retorica, è che la ricchezza non renda totalmente nobili come vuole farci credere Belfort, che ritiene, appunto, che il denaro non ti compra solo una vita migliore ma ti rende anche una persona migliore. Non è vero, perché ci si rende conto che l'individuo diventa egli stesso moneta circolante, circondato da affetti fittizi, da persone attaccate solo per tornaconto personale. E dopo non rimane niente, se non la consapevolezza di essere uno dei tanti. Ennesimo punto a favore per il film: il finale. Semplicemente perfetto, apice ideale di una narrazione circolare in cui tutto finisce come era iniziato, facendoci intendere, in maniera delicata e per questo in netto contrasto con tutto quello che il film aveva espresso fino a quel momento, che un nuovo Jordan Belfort può essere ovunque. Insomma, un film da vedere assolutamente.
Daniele Morganti