Uscita nelle sale italiane il 23 gennaio, The Wolf of Wall Street, ultima fatica di Martin Scorsese, ha già raccolto consensi dai critici e sbancato i botteghini nostrani, ma per chi ama questo cineasta americano di origini italiane ci sono non poche sorprese – spesso non tanto gradite – nel vedere la pellicola. Il film, infatti, fondamentalmente è nello stile del regista, una sorta di romanzo di formazione, in cui il protagonista Jordan Belfort, interpretato dal sempre più straordinario Leonardo DiCaprio, da scapestrato ragazzo di periferia, cresce e impara a muoversi nella giungla del mercato finanziario, fino a diventarne parte integrante e uomo di successo. Fin qui niente di strano, se non fosse l’eccessiva rudezza e la ricerca del grottesco che accompagnano di fatto tutta la prima parte del lungometraggio; scene esplicitamente crude, l’ostentazione della sessualità, la goliardia portata all’estremo: sembra di assistere a una sorta di ibrido tra lo stile di Quentin Tarantino e Robert Rodriguez e i blockbuster in stile Una notte da leoni; si strappa qualche risata al pubblico, ma chi assiste rimane non poco perplesso. Ci si attendeva qualcosa di diverso da Scorsese. Jonah Hill, spalla di DiCaprio, si cala perfettamente in questo clima, e ne esce a tratti più convincente anche dello stesso protagonista.
Il percorso di crescita di Belfort nel frattempo continua: ascesa fulminea, successo straordinario, soldi a palate e tanta, tanta droga. E così passano quasi due delle tre ore del film, ma molto lentamente e con parecchia delusione. Entra in scena la parte “buona”, l’agente dell’FBI Patrick Denham interpretato da Kyle Chandler, faccia da bravo ragazzo, passato per lo più da attore televisivo (ma anche tanti piccoli ruoli in film come King Kong di Peter Jackson o Super 8 di J.J. Abrams), e la pellicola incredibilmente cambia. Il grottesco lascia il posto al classico duello tra il furfante e l’eroe, e l’opera inizia a girare a mille. Scorsese d’improvviso sembra tornare quello dei suoi capolavori (pensiamo in particolare a GoodFellas e Casinò), situazioni comiche ma con una cornice malinconica, carrellate infinite sui volti tormentati dei personaggi, recitazione messa in primo piano e scene che diventano più scarne. Il declino del protagonista coincide con la rinascita del film; il fallimento degli affetti e del lavoro, il tradimento verso gli amici, sembra di assistere alla parte finale di un più maturo Quei bravi ragazzi. L’ultima parte di The Wolf of Wall Street scorre veloce, si esce dalla sala contenti.
Scorsese ha mostrato due facce; quando ha provato a imitare lo stile di altri ha prodotto un risultato alquanto deludente (e diciamo pure che chi si aspettava un’analisi di un certo tipo sulle dinamiche che dominano Wall Street è probabilmente rimasto deluso), quando più umilmente è tornato a quello che sa davvero fare è riuscito ancora una volta a confezionare una pellicola degna del suo nome. Chiudiamo con una considerazione su DiCaprio: per quanto come al solito ci è piaciuto, e molto, preghiamo i membri dell’Academy dall’astenersi dal premiarlo con un Oscar che ai più sembrerebbe soltanto un modo per risarcirlo delle tante, troppe statuette negategli in passato. E se è vero, per restare nel mondo dell’alta finanza, che il Gordon Gekko di Michael Douglas vinse come migliore attore protagonista, bisogna riconoscere che quella era davvero tutta un’altra storia!