Stefano Cavanna
The Wounded Kings con il terzo album della carriera esprimono il massimo delle loro potenzialità realizzando un lavoro che li inserisce di diritto tra le band di riferimento del doom metal.
Il gruppo britannico , già autore dell’ottimo “The Shadow of Atlantis”, trae nuova linfa dal rivoluzionamento della line-up compiuto, suo malgrado, dal talentuoso polistrumentista Steve Mills; il cambiamento più rilevante riguarda l’avvicendamento tra una voce maschile, quella del co-fondatore della band, George Birch, ed una femminile, a cura di Sharie Neyland.
Una trasformazione certo non di agevole assimilazione al primo impatto, dato che il particolare timbro dell’ammaliante Sharie è quanto di più lontano possa esserci dalle vocals stentoree ed evocative del suo predecessore. In realtà, il salmodiare tutt’altro che rassicurante di quella che potrebbe essere sia una strega alle prese con un rito sabbatico sia una novella Cassandra nell’atto di pronunciare le proprie nefaste previsioni , diventa il vero valore aggiunto al tessuto sonoro creato da Mills.
Il doom proposto dai The Wounded Kings si può certamente definire di stampo tradizionale, con ampi riferimenti a quelle band che negli anni ’70 hanno arricchito la propria musica con elementi esoterici; ciò che rende unico questo lavoro è proprio la capacità di fondere le atmosfere del passato con un sound evoluto benché monolitico e, soprattutto, mai derivativo.
L’iniziale “The Cult Of Souls” viene introdotta da un Hammond che, in simbiosi con la voce della Neyland, ci accompagna nel suo inesorabile percorso alla scoperta di mondi atavici popolati da entità spaventose, mentre nel finale il brano viene caratterizzato da una irresistibile quanto conturbante melodia, con la chitarra solista che va a lambire sonorità di stampo floydiano.
“The Gates Of Oblivion”, dove la traccia precedente concedeva tenui spiragli di luce, stende invece un ulteriore velo di oscurità e rende ancora più opprimente e corrosiva l’atmosfera del disco.
“Return Of The Sorcerer” è un breve (se comparato agli altri tre brani che hanno una durata superiore ai 10 minuti) episodio strumentale che ha la funzione tutt’altro che marginale di introdurre degnamente la mastodontica title-track, brano che chiude il disco facendoci sprofondare definitivamente negli abissi della mente umana e delle sue paure ancestrali.
Un opera, “In the Chapel Of The Black Hand”, che non potrà lasciare indifferenti coloro che apprezzano atmosfere tipicamente lovecraftiane trasportate in ambito musicale; la citazione del “solitario di Providence” non è casuale, provate a capovolgere la copertina : esaminando attentamente la scritta posta sulla fronte del teschio, si potrà leggere distintamente parte della famosa invocazione a Cthulhu (Ia! Ia! Cthulhu fhtagn).
“In his house at R’lyeh dead Cthulhu lies dreaming”…