Oggi è morto Robin Williams e io ho visto The Zero Theorem. La cosa potrebbe non azzeccarci un cefalo, ma rivedendo la filmografia del buon Robin mi sono accorto di aver visto tutti i suoi film che volevo vedere, gli altri li lascio, grazie. Robin era prima di tutto uno di noi, un nerd/geek, tanto da chiamare sua figlia Zelda e per questo dovrebbe avere tutto il nostro rispetto. Non avendo nulla da vedere, quindi, ho optato per il nuovo film di Terry Gilliam, che giaceva nel mio pc da qualche settimana in attesa di essere visto da qualcuno. Il film, ovviamente, era uno dei più attesi di quest’anno, visto che riporta il nostro amato Gilliam dietro una macchina da presa (sorvolando su Parnassus, Gilliam fa bella roba dal tempo nel quale era con i Monty Python, quindi da sempre) a fare da regista a quello che gli riesce meglio: la fantascienza (ricordiamo di lui con amore L’esercito delle 12 scimmie e Brazil).
Ma per Gilliam fantascienza fa la coppia con distopia e ancora una volta ci troviamo proiettati in un futuro fortemente distopico e controllato, un po’ come quello di Brazil, ma molto più kitsh. Colori forti, pubblicità invasive e lavori alienanti la fanno da padrona all’esterno della casa del protagonista Qohen Leth (Christopher Waltz), che vive in una chiesa sconsacratata (mio sogno di una vita) nella più totale oscurità e fatiscenza. Qohen è un’analista per una grossa compagnia che non si sa di preciso cosa faccia, ma è diretta dal Management (Matt Daemon), e ha paura di tutto. Vive aspettando una telefonata preziosissima, che non arriva mai e che può spiegargli il senso della vita. Le sue fobie lo costringono a chiedere di essere messo a lavorare da casa e il Management accetta a patto che riesca a risolvere il Teorema Zero, un complesso algoritmo che ha a che fare con l’origine e la fine dell’universo.
Partiamo dal presupposto che The Zero Theorem è un film difficile, una pellicola che dopo essere stata vista necessita di qualche ora di sedimentazione e riflessione. L’effetto visivo del film rende appieno la pellicola: Gilliam, infatti, ci proietta in un mondo che si alterna fra il cupo e l’eccessivamente pop, generando un sovraccarico sinaptico veramente potente. C’è uncontinuo salto fra il surreale, l’onirico e il virtuale. Tre mondi che si compenetrano e si alimentano l’un l’altro in una sorta di frenetico vortice narrativo. La denuncia di Gilliam contro il virtuale, infine, è palese. Il regista ci mette in guardia dall’ossessione per i nuovi media, ma non li condanna del tutto. Il mondo virtuale, infatti, diventa l’unico momento di felicità per Qohen, che riesce a sfuggire alle sue paure e alle sue ansie quotidiane.
Ampio anche il discorso sulla fede in un continuo alterco tra Qohen il fedele e Bob (figlio del Management) e lo stesso Management che non credono a nulla. Il protagonista, infatti, nonostante le sue paure si fida praticamente di tutti, mentre i dubbiosi (soprattutto Daemon) vedono gli altri come “strumenti” per arrivare a qualcosa. Il finale, infine, nichilista e disincantato è volutamente lasciato alla libera interpretazione dello spettatore, senza uno spiegone finale che non avrebbe fatto che rovinare il film.
La pellicola non è esattamente per tutti i palati e Gilliam ha avuto momenti migliori nella sua carriera, ma considerando che il film precedente era Parnassus allora può considerarsi una grande ripresa. Da vedere sicuramente se si ha un’ora e mezza + un altro paio d’ore da dedicare alla metabolizzazione del film…ma io sono in ferie, posso questo e altro…
PS: nelle scene all’aperto il film è costellato da quelle macchinette monoposto della Renault che si vedono tanto in giro per Roma…io le trovo veramente orride, ma una volta ci ho beccato sopra Cristian De Sica…così tanto per dire sta cosa al mondo.