Dopo un’estate passata ad ascoltare in loop “Promiscuità”, è uscito ieri il terzo attesissimo album dei Thegiornalisti. “Fuoricampo” è un disco a due facce, un album acclaratamente classic pop immerso nel gusto 80s di synth e batterie.
Si potrebbe pensare all’ennesimo tentativo di regalarci una realtà preconfezionata dietro un filtro vintage o di rincorrere, in maniera nostalgica, un certo brillante passato cantautoriale ma non è quello che accade. Non accade perché questo disco ci frega un po’ a tutti e crea un’atmosfera dream, dalla forte carica emozionale, che ci scaraventa su qualche spiaggia e ci fa spogliare all’istante di tutti quei freni inibitori di cui ci vestiamo quando siamo sobri. Il risultato di questo album a due anime è una musica decisa e disincantata, matura ma al tempo stesso intrisa di quella melanconia visionaria un po’ adolescenziale che, grazie a Dio, ancora bagna le nostre esistenze.
In “Fuoricampo” non troviamo oracoli di sorta né sofismi ostentatamente naìf. Niente di tutto questo, solo la pura verità sul conto delle vita nelle sue mutevoli sfaccettature, dalle crudità che viviamo di notte e che ci fanno sentire dei veri duri sotto un sole di sigarette, ai voli adolescenziali e melanconici ai quali la nostra mente non è in grado di resistere. Insomma, “Fuoricampo” è disco che funziona perché ci racconta semplicemente le due facce della promiscuità nella quale (orge a parte) sguazziamo tutti.
E in questo clima misto di squallore e bellezza, mentre anneghiamo nel letto alla luce dell’abat-jour, una voce calda si insinua nella mente e si avvinghia ai pensieri così tanto che vorremmo si ripetesse, si ripetesse, si ripetesse di continuo, sempre da lì, fuoricampo.
Dal primo ascolto di “Fuoricampo” emerge subito un cambiamento nel core del gruppo sia dal punto di vista delle sonorità che dei testi. Come si sta evolvendo la band e cosa ha inciso su questo cambiamento?
Se cambia il modo di vivere cambia anche il modo di pensare una canzone, dal suono, al testo, alla melodia. Si cresce e coerentemente cambiano anche gli stili con cui si fanno le cose. Fare sempre la stessa canzone o lo stesso album sarebbe come mangiare omogeneizzati per tutta la vita. Per questo disco abbiamo totalmente assecondato la cultura pop con la quale siamo cresciuti, quella più nostra.
Infatti di voi si dice che evitate “l’indie scazzato” con abilità. Condividete quest’affermazione?
Sì. Può essere un’affermazione giusta. Ognuno fa quello che sa fare. Più che un’abilità è una caratteristica connaturata alla band. Noi siamo una classic pop band, non siamo in grado né di fare emocore generazionale, né quelle musichette minimal con testi minimal surreali fiorellini e depressione. Suoniamo e scriviamo quello che viviamo nel modo in cui viviamo.
Una costante però c’è ed è l’attaccamento ad un certo passato cantautoriale. A chi ha criticato “Vecchio” considerandolo solo una celebrazione di sonorità passate come spiegate la differenza tra rispolverare e rielaborare?
In realtà non ci siamo riusciti. Noi volevamo veramente fare un disco anni 70′, ma non ne siamo stati in grado. Avremmo dovuto metterci a studiare di più. Invece è uscito un ibrido tra suoni non vecchi e non giovani. Se l’avessimo fatto veramente come l’avevamo in testa sarebbe piaciuto un casino di più. Non è bastato l’analogico, il nastro, e strumenti vecchi. Oggi è impossibile far suonare un disco esattamente come suona un disco degli anni 60′ o 70′ o qualsiasi decade in giù.
Presentateci il nuovo album, dall’artwork a quello che ci riserva l’ascolto.
Dell’artwork se ne sta occupando Alessandro degli Angioli degli M+A, ha molto gusto ed è perfetto per questo disco. Penso che il tema centrale siano le canzoni, sono estremamente espressive e sono chiare e dirette senza giri di parole. Non vorremmo dirti quali siano gli orizzonti sonori o che tipo di musica sia, nel senso che ognuno poi ci sente quello che vuole, non vorremmo fuorviare l’ascoltatore con i nostri giudizi a priori.
Quale tra i vostri versi considerate il manifesto dei Thegiornalisti?
“Ma di certo non si può dire che non ci piaccia il bere” (Bere). In realtà ogni frase rappresenta la band, dalla prima all’ultima. In questo nuovo disco tutti i versi sono manifesti della band. Tutti dal primo all’ultimo.
“Diamo tempo al tempo se ci va o rimarremo in coda con l’ansia di non arrivare mai” recitava un vostro pezzo. Nel nuovo album torna ancora il concetto del tempo, sia di quello che è trascorso che dell’attesa di ciò che accadrà. Qualcosa che cambiereste, che rivivreste, che vi aspettate.
Il tempo è una tema centrale nelle nostre canzoni. Non cambieremmo nulla, forse, come ti dicevo prima, l’unica cosa che avremmo dovuto cambiare è stato l’approccio con cui abbiamo registrato Vecchio, non saremmo dovuti uscire dallo studio finché quel disco non avesse suonato come un disco della Plastic Ono Band. Non vorremmo rivivere nulla due volte se non forse qualche vecchio bacio o qualche giorno a scuola ma a quel punto, poi, si perderebbe tutto il senso malinconico e nostalgico della vita e non scriveremmo più canzoni. Il tema di aspettarsi qualcosa ci fa sempre un po’ di paura. Meglio non pensare mai a quello che deve venire. Se speri nel bene e poi ti va male è un’angoscia. Se non hai fiducia nel futuro vivi male il presente. Meglio farsi trasportare dalla vita stessa. Noi il nostro l’abbiamo fatto, abbiamo scritto un album che ci emoziona molto, in più è pure fico.
Promiscuità è stata la canzone da inserire nelle playlist estive tra provocazione e obiettività. Ci sguazziamo tutti, volenti o no. Quale malinconia si nasconde, se si nasconde, dietro l’euforia delle sigarette fino alle sette?
Promiscuità è una canzone a due facce. C’è la vera promiscuità della notte, dell’alcool, della seduzione, delle gambe, degli sguardi assassini, delle toccate e fughe al cesso o quando la luce si abbassa, del locale, della festa e poi c’è quella promiscuità più adolescenziale del tempo delle mele, quella da film svedese per giovani teenagers, quella che finisce con grandi discorsi fino alle sette del mattino e tante sigarette, quella che magari si trasforma in un potentissimo ricordo di quella notte. Forse è proprio questa l’anima del disco, di tutto il disco. E’ un disco forte e maturo, diretto, violento in alcuni punti però sempre bagnato da una cascata di malinconia adolescenziale dream, questo è l’equilibrio su cui poggia il nuovo album.
Con “Socializzare” riaffrontate in maniera forse ancora più diretta un altro concetto che ricorre spesso nelle vostre canzoni: la comunicazione. Meglio essere “uomini non tanto per il fatto che si muore ma perché usiamo le parole per comunicare” o essere “tutti marziani”?
Tutti e due. In realtà la prima dovrebbe fare in modo che la seconda non accada. Comunicare, parlare, sempre come unica via per entrare nella vita degli altri. “Socializzare” parla di quello che secondo noi dovrebbe essere il destino dell’uomo, destino non inteso come futuro ma come missione, compito, è la storia della nostra natura che ce lo dice.
A cura di Elisabetta Rapisarda.