L’estate era esplosa, tardiva. Si era manifestata fulgida e asfittica. Forte di una luce tanto brillante da farmi procedere ad occhi socchiusi. Non che la vedessi molto, la luce. Uscivo di casa alle sette del mattino per rinchiudermi tra le mura bianco accecante dell’ufficio. Tornavo a casa a notte inoltrata, la città più silenziosa che mai, mi godevo la brezza che fendevo in un tutt’uno con la moto. Restavo sotto la doccia per un tempo indefinito, come se il getto d’acqua lavasse via tutto il male che mi sentivo dentro, un dolore fatto di vuoto e mancanza di attese. Cenavo. Poi, tentavo di far qualcosa ma non mi riusciva null’altro che crollare addormentata. La notte era fatta di sogni agitati, abitati da compagnie chiassose e scostanti e da grandi tavolate tra sconosciuti e, in quello stato d’incoscienza, mi ritrovavo circondata tanta gente che mi faceva sentire, se possibile, ancora più sola che da sveglia. Poi, alle 6 la sveglia suonava. E ripartiva tutto daccapo.
Il fine settimana lo passavo a dormire, mi alzavo nel tardo pomeriggio e mi preparavo per le solite serate fatte di niente. Nessuno dei miei amici si accorgeva che non ero più io. Non che la cosa mi sorprendesse. Ma un po’ mi dispiaceva, certo. Certi sabato pomeriggio, Gabriele mi scriveva su Gtalk e chiacchieravamo a lungo, eccedendo in languidezza. Poi, ci salutavamo. Io piangevo. Mi riaddormentavo. Speravo di sognare che lui non esistesse.
Attendevo vorace il lunedì. Era l’unica occasione per evitare il pensiero di Gabriele e di fare i conti con lo stato delle cose. Non mi restava che ripartire. Ma non credevo di potercela fare o, quantomeno, non in quel momento.