L’impatto con la seconda stagione di True Detective è devastante. Non perché accada qualcosa di sconvolgente (o almeno non fino alla fine del secondo episodio…), ma perché Pizzolatto volta pagina drasticamente. E’ come se ci sussurrasse all’orecchio “Welcome to the bad guys’ world, honey…“
Tutto è saturo nella California di True Detective: lo spazio, la fotografia, i personaggi, l’aria. E’ come se tutto fosse soffocante. Come se tutto si concentrasse nelle viscere pronto non a esplodere ma a implodere nei personaggi. A cominciare dall’intro, affidato alla voce profonda di Leonard Cohen e alle parole di Nevermind.
Già da questa scelta dovremmo capire che tutto è cambiato. Che ogni comparazione con la prima stagione è totalmente inutile, sterile nel suo tentativo di mettere a confronto due entità distinte e separate. Quel ritmo sincopato sempre uguale e profondo come i battiti lenti di un cuore e quelle parole… “The story’s told/With facts and lies/You own the world/So never mind“. Non importa, il passato è passato. Andiamo avanti, la guerra è finita. La guerra più antica, quella tra la luce e le tenebre è persa e le rifrazioni si moltiplicano. Non più due punti di vista ma quattro. Non più due piani temporali ma uno solo, il presente, inframmezzato da piccoli flashback.
I totali sulla città sono un groviglio di strade e di luci che si intersecano e si mescolano come la tela di un ragno. Il sovraffollamento di luci e di strade accentua la solitudine endemica dei personaggi principali in una mescolanza di colpa, vizi e peccato che sembra non avere scampo o fine. Fardelli del passato e del presente. In un eterno ritorno dell’uguale. In un perpetrarsi di fughe da ciò che si è. Da ciò che si era e da ciò che si potrebbe essere. Si fugge dalla verità. Si fugge anche dalle parole, dai dialoghi… La parole perde la sua connotazione di riflessione per divenire puro strumento denotativo.
Eppure… Eppure… Cerchiamo una luce alla fine del tunnel. Uno scopo. E allora aggrappiamoci ai nomi. Nomen omen. E allora abbiamo un’Antigone (Rachel McAdams) che attraversa i millenni da Sof
ocle a Pizzolatto, passando per Alfieri, Cocteau e Brecht, e la sua pietas alle prese con una sorella che si chiama Athena. Abbiamo un Paul (Taylor Kitsch) alla ricerca di un’illuminazione sulla via di Damasco. Abbiamo un Raymond (Colin Farrell), protettore suo malgrado. E abbiamo un Francis (un po’ come Underwood…) che poco ha di libero e di santo nel volto di Vince Vaughn.Non ci resta che aspettare i prossimi 6 episodi per poter davvero giudicare, ma “we get the world we deserve“, Ray docet, e per ora va più che bene così.
Ps. Però un po’ di sano pessimismo nichilista alla Rust Cohle ci manca un po’ e per sopperire ci “accontentiamo” dell’angst di Taylor Kitsch…