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Questo preambolo è importante non tanto per ricordare il passato, ma per capire meglio il senso di un opera ostica, cupa ed elaborata come "Third Person".
Messo in discussione più di una volta infatti, l'Haggis-regista finalmente trova un compromesso e riesce a realizzare la sua opera se non migliore quantomeno più adatta ai suoi connotati: una storia statica, misteriosa, avvolgente e corale, che nei suoi tre spaccati divisi tra Roma, New York e Parigi racconta gli eventi - tematicamente simili - di due artisti e un uomo d'affari (ma artista anche lui) alle prese con l'amore per donne bellissime - alcune amate altre amanti - con cui condividono o cercano di condividere sventure scomode da lasciarsi alle spalle o da affrontare. Costante comune che va ad unirsi all'altra più enigmatica legata alla figura di un figlio (o figlia), continuamente pervasa da un dolore esplicitato solo in parte, probabilmente perché pezzo finale di un puzzle più complicato di quel che la scatola in realtà ha intenzione di comunicarci.
In questa condizione di comodità (prolungata dal personaggio-scrittore di Liam Neeson in cui si rispecchia) Haggis allora riesce a dirigere la sua pellicola senza grossissimi exploit, ma con una tenuta e un trascinamento che fino ad oggi il suo cinema non era mai riuscito a mettere in piedi (la musica quasi fissa in sottofondo gli da una grossissima mano). Sicuramente "Third Person" non manca di incappare in qualche buccia di banana, persino in alcune che sarebbero facilmente evitabili, eppure per come è preparato e allenato a procedere secondo una determinata intensità, non rischia mai di far spostare l'asticella dell’attenzione dello spettatore che, seppur non immerso completamente, ha urgente bisogno di sapere come andrà a finire e dove si ha intenzione di andare a parare.
Perciò è qui che la capacità dell'Haggis-scrittore torna più utile che mai, scoprendosi arma letale in grado di sopperire a tutte le mancanze che un thriller-psicologico come "Third Person" contiene fin dalla sua superficie. La semplicità di dialoghi brillanti, la capacità di creare tensione con una frase e il lato scuro che pian piano si fa largo in tutti i suoi personaggi è l'asso nella manica che la pellicola sa di avere e che non ha paura di giocarsi all'infinito, fino a quando ogni filo precedentemente tessuto non è chiamato a radunarsi al gomitolo unico di stampo pessimista.
Che questa debba chiamarsi furbizia o conoscenza dei propri limiti (o pregi) è un fatto secondario. La cosa fondamentale è che Haggis pare aver capito che fare il regista cercando di imitare qualcun'altro è una fatica poco fruttuosa, di cui non vale la pena e che lavorare secondo quelle che sono le sue regole e caratteristiche è la soluzione migliore a ogni problema. Così, "Third Person", pur non essendo né un film eccezionale né il suo capolavoro, dimostra d'essere il film a lui più fedele e rispettoso: nato, cresciuto e vissuto proprio come lui, sotto il segno della scrittura.
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