This is the best wave of the world, maaate!

Creato il 06 ottobre 2012 da Dharmabum

 

Ok, lo ammetto, stavolta me la sono cercata. Nias la sconsigliavano tutti: “un postaccio”, “da evitare assolutamente”, “c’è la peggior gente del Sud Est Asiatico” erano i commenti migliori. Un posto buono solo per i surfisti, che a loro volta generalmente non sono noti per essere dei simpaticoni ( a meno che non siano anche dei viaggiatori ). Eppure quel tizio che avevo incontrato sull’opelet per Sibolga me l’aveva detto: “ma che vai fare a Nias, vieni con me a Pulau Banyak, che è un vero paradiso!”. E mi aveva perfino mostrato le foto dal cellulare che lo confermavano. Ma invece ho voluto andarci lo stesso, convinto che le storie che giravano su quest’isola fossero tutte esagerazioni. E mi sono pure fatto 10 ore di traghetto, dove ho dovuto anche dormire per terra perché ero arrivato troppo tardi nella squallida Sibolga. Mentre aspettavo il ferry in un locale però ho almeno conosciuto un paio di simpatici marinai, uno dei due era stato anche in Italia e aveva un debole per vecchie attrici tipo Silva Koscina o Claudia cardinale.

In ogni caso arrivo alle 6 di mattina nel porto di Gunung Sitoli, la capitale di Nias, già di cattivo umore per il viaggio scomodo, e subito mi accorgo che c’è un’atmosfera diversa da quella di Sumatra. La gente mi sembra tutt’altro che amichevole e solo dopo aspre contrattazioni riesco a trovare un’auto collettiva ad un prezzo accettabile per la baia di Sorake, apparentemente l’unico posto in tutta l’isola dove c’è un minimo di offerta turistica. La strada costiera è fantastica e i colori del mare sono davvero strepitosi, così come quelli della selvaggia vegetazione lussureggiante. E anche la baia è fantastica, e la sua particolare forma a quanto pare è perfetta per creare le enormi onde che attirano qui i migliori surfisti del mondo. A questo punto mi dico: “vabbé chissenefrega della gente, tidak masalah, riuscirò comunque a godermi questo paradiso”. E poi oltre al mare bellissimo ci sono i villaggi nell’interno, che sono il vero motivo che mi ha fatto scegliere Nias e non Banyak. Più avanti vorrei anche andare a Pulau Weh, quindi ero interessato a qualcosa di diverso alla classica spiaggia tropicale.

Il villaggio sulla baia mi è sembrato tristissimo, ci sono una manciata di guesthouses, un paio di empori, un bar e un villaggio turistico che sta cadendo a pezzi. Sì, un vero villaggio turistico, perché qui anni fa ci venivano molti giovani ma anche turisti organizzati. Se dici ai tizi di Nias che sei italiano infatti ti rispondono: “aaah, italiano, avventurenelmondo!”. Poi il turismo è calato e come se non bastasse ci furono ben due terribili terremoti a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro ( il primo è quello famoso del 2004 che generò lo tsunami, ma il secondo del 2005 fu più devastante perché l’epicentro fu molto più vicino ), che distrussero gran parte delle abitazioni e delle infrastrutture. Così alla fine sono rimasti solo i surfisti, anche perché il calo del turismo coincise con la comparsa di violenze e furti, che continuano anche oggi malgrado ci sia stato uno sforzo per arginare il grosso del fenomeno. Ho visto posti anche peggiori, ma l’atmosfera che si respira in questa Lagundri bay è veramente poco piacevole e la mia prima impressione fu assolutamente negativa, e dopo poche ore ho subito pensato ad andarmene prima possibile.

Comunque riesco a trovare una guesthouse decente, gestita da una famiglia un po’ invadente ma tranquilla, dove c’è un solo altro cliente, un surfista australiano che lavora nel campo dell’ambiente e che è stato più di venti volte in Indonesia. Mi offre un tiro di canna e mi chiede se sono “regular” o “goofy”.

“what?”

“regular or goofy?”

“I’ve no idea of you’re talking about, I’m not a surfer”

“Oh… too bad, this is the best wave of the world, maaate”, mi dice indicandomi l’enorme onda che arriva dall’oceano all’interno della baia.

Il tipo è simpatico e mi dà qualche dritta sul posto e su come muovermi. Dice che la guesthouse è sicura perché la famiglia controlla sempre chi entra e che la cucina è ottima. In altre guesthouse ci sono continui furti nelle camere, ad un tizio sono spariti cellulare e macchina fotografica proprio ieri. Io ovviamente non mi fido nemmeno di questa e non ho la minima intenzione di lasciare nulla di valore in camera. Aggiunge che è meglio non girare da soli dopo il tramonto, anche se rapine a mano armata e violenze sessuali a ragazze sono meno frequenti che negli anni scorsi.

La baia è divisa in due parti da una scogliera di coralli morti: c’è la parte dei surfisti verso l’oceano e quella più interna per chi vuole solo farsi un bagno dove c’è una splendida spiaggia da cartolina e un piccolo villaggio di pescatori. Mi sorprende che non ci sia nemmeno un albergo o una guesthouse sulla spiaggia, ma ho l’impressione che gli abitanti della zona non siano molto interessati a sfruttare il turismo. Alcuni dicono che dopo i terremoti si erano un po’ abituati ad essere aiutati da NGO e associazioni varie e come spesso accade quando i volontari se ne sono andati non sono stati in grado di ripartire da soli. Altri invece incolpano il corrotto governo centrale ( secondo molti il più corrotto del mondo, in confronto quello italiano è virtuosissimo ) che non ha mai voluto aiutare veramente Nias, che pur essendo grande come Bali riceve pochissima attenzione e quasi nessun aiuto economico. C’è anche chi pone una questione religiosa, dicono che i cristiani sono discriminati dal governo musulmano di Jakarta. In effetti ho sentito qualche lamentela anche nella zona del lago Toba, ma non so quanto sia vero e se valga anche per il resto delle isole dell’Indonesia.

Ma come ho detto in precedenza Nias è anche un’isola molto interessante dal punto di vista culturale, e i villaggi dell’interno dovrebbero essere tra i più belli di questa parte dell’Indonesia. Un paio di questi erano nel tour classico dei viaggiatori organizzati, ma ormai solo il più famoso, Bawomataluo, vede qualche rarissimo turista o qualche surfista che si annoia tra un’onda e l’altra. Io grazie a qualche appunto trovato su internet e alle info che mi ha dato un tizio di un’altra guesthouse sono riuscito a crearmi un minitrek tra villaggi che non vedono molto spesso dei viaggiatori. Sono villaggi tradizionali veramente bellissimi, unici nella forma e nell’architettura, dove ci sono ancora molte testimonianze del misterioso passato di questa cultura. E la gente è bella e amichevole ( ma su questo non avevo dubbi ), niente a che vedere con gli attaccabottone perdigiorno che girano per Lagundri.

La storia di Nias e dei suoi abitanti è realmente misteriosa, si sa che fin dai tempi antichi avevano relazioni commerciali con altre zone dell’Asia e che potrebbero essere dei Naga, dei Taiwanesi o dei Dayak del Borneo, ma certezze non ce ne sono. Chiunque fossero avevano senz’altro qualcosa in comune con questi gruppi, come ad esempio la ferocia dei loro guerrieri e l’abitudine di tagliare la testa e di mangiare i propri nemici. Però varie usanze, i loro villaggi e lo strano culto dei megaliti sono unici e piuttosto strani. Qui secondo me ci sarebbe materiale adatto a quei tizi di History Channel che cercano prove sugli antichi alieni.

Mi faccio quindi accompagnare dal ragazzo dell’altra guesthouse a Hilisimaetano, uno dei villaggi più grandi e interessanti dove ci sono più di 100 case tradizionali, alcune anche molto antiche. Questi villaggi ti colpiscono subito non solo per l’architettura ma anche per la loro struttura: c’è una larga strada in ciottolato al centro sulla quale sono disseminati vari monoliti e sculture, e ai lati ci sono le case disposte in fila una accanto all’altra. Non manca ovviamente il muretto per lo “stone jumping” ( lompat batu ), una bizzarra tradizione praticata qui a Nias fin dai tempi antichi e ritratta nelle vecchie banconote da 1000 rupie. Si trattava di una specie di prova di coraggio per i guerrieri, che dovevano saltare un muretto alto 2 metri sulla cima del quale venivano inseriti dei pali appuntiti. Non oso pensare a cosa succedeva a chi falliva la prova. Oggi ormai la tradizione è quasi abbandonata, veniva tenuta viva solo come spettacolo per i turisti, disposti a pagare anche discrete cifre ( per gli standard locali ovviamente ) per vedere questo spettacolo ( senza pali appuntiti però ). Un abitante di Hilisimaetano mi spiega che senza un ritorno economico ai giovani non conviene più, perché come si può facilmente immaginare è un’attività che richiede un allenamento costante. In genere non sono molto attratto dagli spettacoli tradizionali per turisti, ma questo sicuramente valeva la pena e se avessi trovato altri 3 o 4 tizi per fare una colletta me lo sarei visto volentieri, ma in tutto il giorno passato tra i villaggi non ho incontrato nessun altro straniero.

Come detto le case sono veramente particolari, non avevo mai visto niente di simile: hanno una base molto solida costituita da grossi tronchi levigati che sorregge l’abitazione vera e propria costituita da un unico ambiente  in legno costruito ad incastri dove c’è una grande apertura-finestra rivolta verso il centro del villaggio. Il tetto è a punta costruito con un’angolazione molto ardita, al centro c’è una specie di grande lucernario.

Sempre grazie al tipo che mi aveva accompagnato riesco a capire quale sentiero prendere per raggiungere prima Lahusa Fau e quindi Bawomataluo. Dopo 10 minuti mi rendo conto dove sono, solo in mezzo ad una fitta giungla su un’isola sperduta nell’Oceano Indiano. E dopo altri 5 minuti incontro un vecchio seminudo con una lancia: ci scambiamo un’occhiata di perplessità e poi ognuno prosegue per la sua strada. E’ per questo che viaggio.

Raggiungo quindi Lahusa Fau, dove tutti mi guardano abbastanza straniti e dove chiedo se si può bere un caffè ma non ne hanno. Questo è forse il villaggio che mi è piaciuto di più, perché pur essendo più piccolo e meno impressionante per l’architettura era realmente incontaminato e perché c’era una bella vista sul mare e sulla giungla circostante. Dopo un tratto su carrareccia vedo le prime case di Bawomataluo, quelle più moderne, e infine entro nel villaggio vero e proprio. E’ bellissimo. A differenza degli altri due oltre ad essere molto più grande ha la pianta a forma di croce ed è stato costruito in cima ad una collina, anzi il nome del villaggio significa proprio “collina del sole”. Ci sono molti monoliti e varie sculture, oltre a molte case tradizionali e la grande casa del Re che dovrebbe essere la più antica dell’isola. Tra i monoliti alcuni venivano usati per i sacrifici umani, come quelli del Meghalaya, secondo gli studiosi della storia di Nias poi i corpi venivano lasciati sul posto a marcire. Certo che vedere questi villaggi dell’Indonesia uno o due secoli fa doveva essere un’esperienza terrificante, e probabilmente non saresti sopravvissuto per raccontarla. Non manca ovviamente il muretto dello stone jumping. Un paio di ragazzi si propongono per farmi da guida, ma mi lasciano perdere quasi subito, e posso girarmi il villaggio con calma e fare due chiacchiere con qualche tizio. Avevo letto su una vecchia guida lonely planet che il villaggio era “molto turistico”, parlava di “tourism in full swing”, ma evidentemente la situazione è molto cambiata, oggi non ci va quasi più nessuno e l’attività principale degli abitanti è ritornata quella di sempre, l’agricoltura. Mi dirigo quindi verso il lato meridionale dove c’è il vero ingresso al villaggio e una scalinata. Il panorama è spettacolare: la collina domina tutta la parte sud di Nias, in particolare è molto bella la vista sulla baia di Lagundri e sul piccolo villaggio di Orihili che è la mia prossima tappa. Anche quest’ultimo villaggio è in perfetto stile niassano con belle case tradizionali, il muretto e varie statue. Qui ho trovato la gente più simpatica, e malgrado le difficoltà con la lingua ( ma qualcosa di bahasa indonesia riesco a biascicarla ) sono riuscito a conoscere qualcuno di interessante. Infine un tizio si offre di accompagnarmi alla fermata dell’opelet per Teluk Dalam, che fortunatamente arriva dopo pochi minuti ( e sul quale ci sono solo delle belle contadine della zona molto divertite della mia presenza ). Il giorno seguente darò un’occhiata anche a Botohili e Hilimaeta, che si trovano vicino a Sorake, sono anch’essi tradizionali ma decisamente più moderni.

La prima impressione su Sorake si è rivelata giusta, nessuno mi ha derubato ma il posto non mi piace per nulla, e quando una mattina incontro due bambini che fissandomi mi dicono :”give me money!”, decido che è il momento di levare le tende e provare ad andare a nord, dove dovrebbero esserci delle spiagge e forse un paio di hotel. Ma il mio progetto si rivelerà ben più difficile del previsto, nessuno pare disposto ad aiutarmi, e dopo un paio di litigi e una rissa sfiorata con dei tizi a Gunung Sitoli deciderò di lasciare subito l’isola. Arrivato al porto incontro le prime persone disponibili e simpatiche della giornata, che però mi smontano subito dicendomi che la nave “giornaliera” per Sibolga non partirà per due giorni. C’è volendo un cargo che fa anche servizio passeggeri per Singkil che parte alle 10 di sera. “But that is Aceh…”, mi dice uno dei tizi, come se stesse nominando l’Iraq o l’Afghanistan. Questa sarebbe una bella deviazione rispetto al mio itinerario che prevedeva una rotta verso sud, ma non ho intenzione di passare ancora due giorni qui a Nias, quindi acquisto il biglietto e vado a farmi un giro in città. Scoprirò che c’è gente tranquilla e amichevole anche a Gunung Sitoli ( la città però è proprio brutta ), che si mangia bene e che internet è velocissimo ( a Sorake ovviamente non c’era, il più vicino internet cafe era a Teluk Dalam ). Sul cargo ci sono solo una decina di altri passeggeri, e mi farò una bella dormita fino all’alba, quando arriveremo al porto di Singkil. Un ufficiale della nave si offre di aiutarmi a trovare un mezzo per Tapaktuan, la mia prossima destinazione. Mi dice di aspettare mentre lui va in motorino a chiedere informazioni in città e alla fine mi organizzerà tutto ( non ce l’avrei mai fatta, il minibus partiva da una casa privata ) e mi pagherà perfino il becak. I sumatrani, almeno per la mia esperienza, sono per la stragrande maggioranza brava gente, gentili e onesti, sempre sorridenti e disposti a dare una mano se serve.


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