Sorrentino, grazie a This Must be the place, si conferma come uno dei registi italiani di maggior talento e interesse. Il film, lo dico subito, non mi ha convinto completamente ma resta, in ogni caso, un ottimo prodotto. Un film innovativo e completamente folle in cui si incontrano solitudini con diverse origini. Sean Penn, con quel rossetto e quei capelli, è assolutamente perfetto, un attore dal talento incredibile che si sposta per tutto il film con un andamento lento e incredibilmente umano, con quel modo di ridere appena accennato, quell’ironia triste di chi ha smesso da tempo di vivere.
Cheyenne è una ex rock star che ha smesso di fare musica ma non di vivere i panni del suo personaggio, “disturbato” da un senso di colpa che non riesce a colmare, passa le sue giornate aggirandosi per centri commerciali, porta con sé, come un peso da trainare, un carrello o una valigia, ha una moglie che ama e che gli da una ragione di esistere, strani amici, un po’ fuori di testa. Alla notizia della morte del padre Cheyenne torna in America, in quel luogo da cui era fuggito. Del padre non sa nulla, trent’anni di silenzio non gli hanno permesso di essere “presente” nella sua vita. Non sa nulla dell’ambiente ebraico, sa poco dello sterminio degli ebrei. Il padre ha lasciato dei diari, ha rinunciato alla sua vita per rincorrere quello che è, forse, un fantasma. Un ex nazista che per lui diviene ragione di vita. Ed è a questo punto che Cheyenne decide di improvvisarsi detective per trovare l’aguzzino del padre. Forse è morto anche lui, in ogni caso, sempre che sia vivo, ormai avrà più di novant’anni. È il pretesto per ritrovare se stesso, un viaggio on the road in un’America che sembra post apocalittica, con strade deserte, con il pensiero rivolto alla crisi, ma anche con paesaggi meravigliosi. Tutta la prima parte di questo film è un vero capolavoro. Penn incarna perfettamente il suo personaggio, si prova immediatamente amore per quest uomo che non ha paura di andare per centri commerciali con il rossetto, che si confronta, in dialoghi assurdi, con persone che non conosce, che fa battute ironiche e ha, allo stesso tempo, lo sguardo triste di chi non riesce a vivere. Ma la seconda parte mi ha lasciato perplesso. Non per il viaggio, metafora forse essenziale per ritrovare un po’ di pace, forse per il messaggio finale, non so, è che qualcosa mi ha disturbato. Non so cosa sia ma mi ha disturbato.
Forse quell uomo nudo sulla neve, forse proprio la ricerca di Cheyenne, o forse il finale che qualcuno troverà rassicurante ma che, per me, è stato una vera sconfitta.
In ogni caso il film di Sorrentino è un piccolo gioiello che mette in evidenza come il talento di molti registi italiani venga, in patria, compresso in regole troppo ferree. Regole che, appena si ha la possibilità di lavorare serenamente all’estero, esplodono dando vita a una geniale follia.
Marino Buzzi
Magazine Cinema
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