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L'impressione che ho avuto nel vedere "This must be the place", l'ultimo film di Paolo Sorrentino, è stata quella di essere di fronte ad un'opera più cerebrale che emotiva, più ideale che sentimentale. Mi spiego. Sorrentino ci aveva abituati "bene": i suoi film trasudavano di approcci cinematografici nuovi, inediti, mai banali. Una regia elegante (che si ripete qui) si abbinava a storie intriganti, ad una visione "altra" della realtà, a personaggi che nessuno avrebbe osato mettere sullo schermo o che nessuno avrebbe mai trovato veramente interessanti. Il tutto veniva abilmente messo insieme grazie a sceneggiature solide che sostenevano perfettamente la costruzione di immagini di grande fascino.Anche in "This must be the place" la cura per la fotografia e la scelta di inquadrature e contenuto di inquadrature restano impeccabili, ma nonostante indubbi pregi tecnici (c'è da aggiungere l'interessante lavoro che ancora una volta il regista napoletano porta avanti sulla musica e la colonna sonora, praticamente un altro protagonista del film), il film soffre di una certa debolezza di sceneggiatura e di un coinvolgimento sincero alla storia.
Sean Penn (bravo, ma non alla sua prova migliore) è un cantante rock di successo, ritiratosi a vita privata per motivi non proprio leggerissimi. Soffre di depressione e Sorrentino ce lo mostra esaltandone, purtroppo, il lato più da macchietta. Cheyenne, il suo nome d'arte, passa le giornate come una tranquilla casalinga di provincia, una "desperate housewife" che controlla i suoi investimenti in borsa, fa la spesa al centro commerciale, sfoglia riviste aiutando la vista con un paio di occhiali con tanto di catenina intorno al collo. La moglie (adorabile Francis Mc Normand) è in realtà il marito che di mestiere fa il pompiere e che lo batte nelle partite a pelota.La notizia della malattia del padre lo porta forzatamente verso le origini, verso le domande che non hanno mai risposta (i genitori ci vogliono bene?), verso un viaggio attraverso l'America profonda che è, guarda un po', un percorso di crescita ed evoluzione personale.
E' la sceneggiatura la parte più fragile del film e non è poco. Alcuni episodi ed alcune scelte narrative sanno di macchinoso: si sente la ricerca della trovata, piuttosto che lo svisceramento di stati d'animo e tutto questo va a discapito della fluidità stessa del film e della sincerità dell'opera.Nel film c'è Sorrentino, ma è come se non ci fosse. C'è il suo occhio cinematografico, ironico e intelligente, ma manca il coinvolgimento del suo sguardo umano. La storia è sua e come potrebbe non esserlo: sarà, suppongo, il coronamento dei sogni del ragazzino Sorrentino quello di poter dirigere un film su una rockstar decaduta, affidare il ruolo da protagonista ad uno dei più grandi attori degli ultimi 20 anni e avere come supervisore alla colonna sonora "nientepopodimeno" che David Byrne. Ecco l'ideale che è perfettamente reso. Ma nelle due ore di film non ho sentito quella presa emotiva a cui sempre Sorrentino ci aveva abituati, quell'indecifrabile coinvolgimento, quella simpatia, nel suo significato proprio di "patire insieme", che ci avvicinava in modo incredibilmente umano e viscerale ai suoi personaggi borderline: dagli usurai di provincia ai ragionieri della mala esiliati in una non-vita, fino a divi grotteschi della politica.Sorrentino ha osato lì dove nessuno, in Italia, si permetteva più. Qui fa un passo indietro: ci regala belle immagini, senza però graffiare.
Sposo in pieno il giudizio di Paolo Mereghetti sul Corriere della Sera: "dopo aver dato fiducia per più di due ore a un regista che aveva fatto dello smarrimento visivo e dell’inafferrabilità filosofica la sua chiave di lettura del caos odierno (anche se solo accennati, il film affronta i Grandi Temi dell’oggi, dal dolore alla vendetta, dalla solitudine all’apparenza) viene il dubbio di essersi persi tra ambizioni troppo grandi. E che l’attenzione alla «forma», per bella e affascinante che sia, finisca per risolversi in una formula un po’ troppo programmatica".
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